Alla conferenza di Laboratorio Europa di Eurispes “Trasformare l’Europa”, venerdì 11 maggio il sottosegretario all’Economia Pier Paolo Baretta ha lanciato un’idea di Europa utopica, velleitaria, controcorrente
Il problema politico che si pone davanti a noi, che crediamo all’ Europa unita e madre, non matrigna, è come rilanciarne una visione strategicamente, anzi, direi emotivamente, coinvolgente, sin da sembrare, in questo contesto politico e culturale, utopica, velleitaria, controcorrente. Ma, al tempo stesso, conciliare, questa idea positiva di Europa con i problemi concreti di carattere politico, istituzionale, economico e giuridico che si contrappongono alla sua realizzazione e con i quali facciamo i conti tutti i giorni, tali da far, talvolta, pensare, anche a chi vuole davvero realizzarla, che sia impossibile, impraticabile, insostenibile farcela.
In sostanza, si tratta di capire se è possibile pensare all’Europa unita, da un lato, e riconoscere, dall’altro, le differenze storiche, culturali, sociali esistenti tra i popoli, facendo sì che esse siano un valore aggiunto allo stare insieme e non un ostacolo alla convivenza. E, ancora, come garantire agli Stati nazionali la necessaria autonomia di scelte, senza che ciò contrasti con la gestione europea dei poteri. Si pongono qui le questioni delle liste sovrannazionali e dei rapporti tra Commissione, Parlamento e Governi nazionali.
Personalmente penso che la risposta a questo delicato e difficile interrogativo stia negli Stati Uniti d’Europa. Agli occhi dell’opinione pubblica, anche la più avveduta, questa prospettiva è caricata di una forte simbologia: viene, cioè, vissuta come l’orizzonte strategico più alto; come la nuova Patria, come l’unità europea. Sicché, Europa unita e Stati Uniti d’Europa appaiono come il medesimo concetto strategico, tanto da venire assimilati in un’unica contestazione da chi contrasta la prospettiva europea o applauditi da chi la sostiene.
Credo, invece, che bisogna rendere evidenti le differenze, per l’appunto strategiche, tra i due concetti. Il primo – l’Europa unita – se preso alla lettera, è davvero utopico, ma anche sbagliato perché annulla le specificità. È, perciò, irrealizzabile e dannoso, perché dà ragione a chi ne sostiene l’impraticabilità allo scopo di “smontare” l’Europa, mantenendone un simulacro ubbidiente alle sovranità nazionali, a cominciare, ovviamente, dalle più forti.
Gli Stati Uniti d’Europa, invece, conservano il carattere simbolico di una sostanziale e forte identità e unità europea, ma esplicitano una visione e una gestione federale, che può garantire quell’equilibrio tra unità e specificità, tra identità e autonomia, di cui parlavo all’inizio. Senza dimenticare che il progetto degli Stati Uniti d’Europa deve essere capace di rimettere al centro del dibattito, sociale e culturale europeo, la prospettiva politica. Burocrazia, vincoli economici, distacco tra cittadini e rappresentanti hanno prodotto nel tempo un cortocircuito in cui l’Euro, e non l’Europa, ha finito per fare da collante a regole restrittive e non a un progetto politico, in grado di scaldare le “masse”, come si sarebbe detto un tempo.
Per questo dobbiamo ripartire dalla politica. Affermare l’obiettivo degli Stati Uniti d’Europa vuol dire, oggi, nella stessa Europa, ma anche in Italia, andare controcorrente. Ebbene: andiamoci!
Stiamo vivendo nel nostro Paese una situazione politica nella quale prevale una prospettiva di governo sovranista, che attribuisce all’Europa l’origine dei nostri guai, accompagnata da una piattaforma economica insostenibile, che scaricherà sull’Europa l’impedimento a realizzarla. Ma, questa piattaforma è stata sostenuta da un forte consenso popolare, manifestatosi nel voto recente. Ebbene, a fronte di questo scenario, le forze europeiste hanno, davanti a sé, un’alternativa secca: o “lisciare il pelo” all’onda maggioritaria, sedendosi con loro per verificare le loro proposte e cercare, comprensibilmente, di ridurre il danno o alzare il tiro affermando una prospettiva esplicitamente alternativa, pur se minoritaria.
Io, conscio della difficoltà attuali e dei rischi di una alleanza pienamente sovranista, avrei tentato di incrinare il fronte ed attuare anche la prima strada, ma, una volta bruciata la possibilità di incidere nelle politiche di governo, è meglio prendere il largo e ragionare su una prospettiva politica netta e pienamente riconoscibile.
A questo proposito bisogna chiedersi se uno degli aspetti che ha segnato il risultato negativo delle forze riformiste ed europeiste, non sia stato, anche, aver manifestato una sorta di tiepidezza verso l’Europa. Il rispetto dei vincoli economici (il 3%) è stato vissuto come un’imposizione. Che il fiscal compat vada corretto è evidente, ma i nostri problemi di debito pubblico, di scarsa crescita, di disoccupazione, non vanno imputati all’Europa o alla Germania, ma – come dice il professore Fabbrini – devono suscitare uno scatto di orgoglio nazionale per risolverli.
Devo dire, però, che nella discussione sulla crisi, noi stessi abbiamo confuso il rigore tedesco sui conti, eccessivo e sbagliato, che ha contagiato la Commissione, con l’austerità. Ancora meglio abbiamo barattato la sobrietà, che, al contrario, poteva essere, dentro la crisi drammatica che abbiamo attraversato non solo una virtù, ma anche un presupposto per una discussione sul modello economico post-crisi, meno consumista e più sostenibile! Questione che troverà, nei prossimi mesi, un interessante banco di prova nelle scelte politiche che si faranno nel nostro Paese, in rapporto all’equilibrio tra tenuta dei conti, flessibilità e deficit. Prepariamoci a questa discussione.
Le incertezze di messaggio, dunque, hanno lasciato spazio ad una visione negativa dell’Europa, alimentata dai sovranisti, ma, tutto sommato, poco contrastata da noi. Non sono bastate a compensare questa ambiguità di fondo, iniziative importanti, ma estemporanee, come la presenza, su invito di Renzi, a Ventotene di Hollande e Merkel, o la caratterizzazione del simbolo elettorale di Emma Bonino, con: “+ Europa”.
Ecco perché, sostengo, sia un bene andare, oggi, esplicitamente controcorrente, recuperando, in tal modo, un deficit comunicativo. Sostenere, in questo frangente politico, gli Stati Uniti d’Europa vuol dire dare un riferimento a quella parte larga del Paese che guarda con favore, anche critico, all’Europa. Cittadini diffusi anche tra i votanti dei sovranisti, ai quali hanno dato il consenso per altri motivi (il lavoro, le tasse, i migranti), senza, però, necessariamente arrivare alla conclusione, alla quale arrivano i partiti vincitori, che è tutta colpa dell’Europa…
Colpe, in effetti, l’Europa ne ha e non poche. Come, però, ne hanno e, forse, in misura maggiore, i Governi degli Stati nazionali.
Solo se è chiara ed esplicitata la prospettiva europeista, le necessarie critiche sono interpretabili come un contributo alla soluzione dei problemi e non alla ri-soluzione… dell’Europa. Solo all’interno di quella prospettiva sarà possibile gestire le diverse velocità tra gli Stati. I casi Grecia e la Brexit, in maniera molto diversa tra loro, ci devono insegnare che non esistono spazi per due o più Europe, ma, semmai, per diversi destini o per diversi gradi di maturazione nel processo europeista che vanno riconosciuti e rispettati.
L’Europa a due velocità, infatti, è un vantaggio se si va verso gli Stati Uniti d’Europa, perché consente agli Stati più disponibili ad accelerare il processo, fungendo da traino per gli altri vagoni più lenti e, probabilmente, scatena la corsa a non restare fuori; ma diventa una separazione progressiva e definitiva se disancorato da una prospettiva comune.
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