Se la domanda è: andava firmato l’accordo di Mirafiori? La risposta è netta: sì! Per almeno due ragioni; la prima: non si butta via un investimento di quella portata, tanto più in una crisi recessiva come l’attuale. Marchionne ricatta? Può darsi. Non è una buona ragione per rinunciare ad una prospettiva di lavoro per migliaia di persone ed anche questo, come ogni accordo, non è definitivo. La Storia sindacale è fatta di alti e bassi e la capacità di gestire i momenti bassi, i sacrifici ed anche quelle che possono essere percepite come sconfitte, con dignità e un occhio alla prospettiva è lungimiranza, non debolezza. La seconda: le condizioni lavorative concordate (turni, ritmi, pause, cadenze,…) sono certamente faticose, ma non estranee alla casistica di gestione degli impianti in condizioni di crisi. Il principale errore degli oppositori, che poi ha portato alla esasperata soluzione sulla rappresentanza, sta nell’aver impostato la loro linea intransigente proprio sulla parte sindacalmente più negoziabile: l’organizzazione del lavoro. Aver confuso i “diritti” inalienabili con lo statu quo, come se anch’esso non fosse il risultato di una condizione e negoziazione… dinamica e storicamente congiunturale. Si tratta di un errore che già è grave lo faccia la sinistra radicale, ma è connaturato ad un approccio tutto ideologico e, tutto sommato, estraneo alla vita reale delle “officine”; ma che lo faccia un sindacato, come presume di essere la Fiom, ha dell’incredibile. Ma non è un caso; è la dimostrazione che è in atto una deriva verso una rappresentanza del lavoro tutta ed esclusivamente politica, sulla cui vischiosità insisto da tempo e che è stata, giustamente, denunciata, in questi giorni, anche da Cesare Damiano nei suoi condivisibili interventi sul tema. E’ il punto di fondo sul quale, tutto sommato, si riflette poco e che travalica del tutto il merito delle questioni in discussione, anche se ne costituisce il filtro di lettura: la formazione in atto, cioè, di un “cartello delle sinistre”: partiti, movimenti, sindacato, che esalta l’antagonismo sociale, assunto come metro di misura della costruzione dei rapporti politici.
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