La mia proposta di “fiscalizzazione” del periodo di studi universitari, fino alla laurea, ha suscitato un qualche interesse e domande; e necessita, perciò di alcune considerazioni e precisazioni.
La proposta è stata formulata in un convegno sul futuro previdenziale dei giovani (organizzato dalla cassa pensioni dei dottori commercialisti), soprattutto, con riferimento alla generazione dei “Millennials”. Si inserisce, perciò, necessariamente, all’interno di un progetto più ampio che mira a creare le condizioni per un welfare più equo e sostenibile.
La pesante crisi economica e finanziaria; i mutamenti demografici (aumento da record dell’attesa di vita e scarsa natalità); il mercato del lavoro mutato, hanno creato un cortocircuito generazionale che ha pesantemente penalizzato i nati tra gli anni ’80 e gli anni 2000. A dimostrarlo sono i dati. Questa generazione, quella dei cosiddetti Millennials, presenta non solo tassi di disoccupazione nettamente più elevati rispetto a quelli delle coorti successive, ma anche un ingresso posticipato nel mondo del lavoro e percorsi lavorativi nettamente più frammentati.
Lo Stato, da solo, ce la farà a colmare quello che si presenta come un vero e proprio divario generazionale? Penso di no. Per questo, accanto all’intervento a sostegno del diritto allo studio (che è, anche, un incentivo alla laurea – i dati Eurostat di oggi confermano che siamo penultimi in Europa, davanti solo alla Romania), ho proposto, da un lato, un’integrazione esplicita e organica tra pubblico e privato (ad esempio, incentivando, anche tra i più giovani, l’adesione ai fondi pensione integrativi) e, dall’altro, la riforma del sistema fiscale (a cominciare dalle tax expenditures: 700 voci e circa 250 miliardi di detrazioni e deduzioni a disposizione dei cittadini; figlie di un mercato del lavoro e di una domanda sociale ben diversa dalle nuove, attuali, esigenze).
Accanto a queste misure, serviranno sgravi contribuitivi per favorire l’ingresso e la permanenza nel mondo del lavoro, oltre a interventi di solidarietà sociale. Come ogni proposta di riforma, anche questa implica scelte e criteri perché la sua applicazione sia sostenibile da un punto di vista finanziario. Non si tratta, quindi, di discriminazione, ma di riequilibrio per quelle generazioni che più di altre hanno subito le conseguenze della crisi economica. Sarebbe sproporzionato prevedere la fiscalizzazione degli anni di studio fuori corso (sebbene il riferimento non sia solo a chi sia ancora studente, ma anche a chi si è già laureato) o delle seconde e terze lauree (per percorso standard intendiamo una vecchia laurea quinquennale o il cosiddetto 3+2). Criteri più specifici e puntuali rispetto a platea, età e modalità di riscatto dovranno, infine, essere verificati in base alle coperture finanziarie disponibili.
Si tratta di un ragionamento ambizioso e coraggioso, per certi versi controcorrente; ma solo guardando avanti e discutendo insieme troveremo la strada giusta.
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