Pensioni, disparità tra uomini e donne: audizione del sottosegretario Baretta

Audizione del Sottosegretario di Stato dell’Economia e delle Finanze, 

Pier Paolo Baretta,  Il 6 Aprile 2016, nell’ambito di un’indagine conoscitiva sull’impatto in termini di genere della normativa previdenziale e sulle disparità esistenti in materia di trattamenti pensionistici tra uomini e donne, in corso di svolgimento da parte della XI Commissione della Camera.

Signor Presidente, Onorevoli colleghi,

L’indagine conoscitiva verte, come sappiamo, sull’impatto in termini di genere, della normativa previdenziale e sulle disparità esistenti in materia di trattamenti pensionistici tra uomini e donne.

Voglio, innanzi tutto, segnalare che l’INPS – già dal 2007 – dedica spazio alla prospettiva di genere nel bilancio sociale dell’istituto, cogliendo:

A) sul fronte delle entrate, il flusso monetario derivante dalla produzione, disaggregato per genere. Ciò avviene sulla base di stime elaborate nell’analisi del monte salari proveniente dall’occupazione femminile e maschile;

B) sul versante della spesa, considerando le variabili relative alle prestazioni erogate a sostegno del reddito e per le pensioni.

Questi elementi potranno contribuire alla definizione di una metodologia finalizzata alla formazione di un bilancio di genere anche per il Rendiconto dello Stato. Va tuttavia precisato che la spesa previdenziale e assistenziale iscritta nel bilancio dello Stato, anche qualora venisse, auspicabilmente, distinta per genere, non potrà fornire un quadro esaustivo dell’impatto, in termini di genere, della normativa previdenziale. Per evidenziare in maniera compiuta tali aspetti sarà in ogni caso necessario riferirsi ad un quadro integrato tra il bilancio dello Stato e il bilancio dell’INPS.

E’ opportuno, a questo punto, evidenziare che disposizioni per la sperimentazione di un bilancio di genere in Italia erano già state introdotte alcuni anni fa, in occasione della riforma del bilancio, ancorché non applicate; ma, ciò che mi interessa qui sottolineare, è che disposizioni in tale senso sono state reiterate e reintrodotte recentemente con l’articolo 9 dello schema di decreto legislativo attuativo del completamento della riforma del bilancio, secondo i principi e criteri dell’articolo 40 della legge n. 196 del 2009, presentato dal Governo il 15 febbraio 2016. Tale sperimentazione è volta a dare evidenza del diverso impatto delle politiche di bilancio su uomini e donne, in termini di denaro, servizi, tempo e lavoro non retribuito partendo dall’assunto che il bilancio pubblico è rilevante per la realizzazione dell’uguaglianza di genere.

Venendo, ora, al tema dell’indagine – che, come detto, si riferisce alla disparità di trattamento in materia pensionistica tra uomini e donne – va, innanzi tutto, rilevato che, di fatto, non esistono differenziazioni di genere per quanto riguarda le regole d’indicizzazione dei trattamenti e del computo delle prestazioni.

Per quanto riguarda, invece, i requisiti d’accesso alle prestazioni, con la legge 214 del 2011, è stato previsto il completo allineamento del requisito anagrafico per il pensionamento di vecchiaia delle donne a quello degli uomini, entro il 2018 (ciò per il settore privato, perché per il settore pubblico tale requisito è già allineato).

E’ stata inoltre introdotta una differenziazione strutturale nel requisito contributivo per l’accesso al pensionamento anticipato, indipendentemente dall’età anagrafica,  prevedendo per le donne un anno in meno di contribuzione rispetto agli uomini (ad esempio nel 2016 il requisito in esame è pari a 41 anni e 10 mesi di contributi per le donne e 42 anni e 10 mesi per gli uomini, successivamente adeguati nel tempo in base all’ incremento della speranza di vita).

Relativamente a tale ultimo aspetto, ricordo che tale differenziazione è stata oggetto di una procedura d’infrazione comunitaria, alla quale si dovrà porre rimedio attraverso la correzione della norma, ovvero nel senso di allineare il requisito contributivo delle donne a quello degli uomini. Su tali aspetti gli uffici tecnici del Ministero del Lavoro si sono comunque riservati di effettuare ulteriori approfondimenti.

La scomposizione della spesa pensionistica complessiva (pensioni dirette e indirette) per sesso, evidenzia una prevalenza della quota riferita al genere maschile, per tutto il periodo di previsione. La differenza è pari a due punti percentuali di PIL nel 2010 e tende ad assottigliarsi fino allo 0,3% nel 2060.

Considerando la distribuzione per sesso delle singole tipologie, la quota maschile risulta superiore per quanto attiene alle pensioni dirette ed ampiamente inferiore per quelle indirette. Ciò dipende da una pluralità di fattori di cui i più importanti sono: la maggiore partecipazione maschile al mercato del lavoro, che determina una maggiore probabilità di conseguire una pensione diretta e lasciare, conseguentemente, una pensione al superstite di sesso femminile. Tale condizione é ulteriormente sostenuta dalla maggiore longevità delle donne rispetto agli uomini di circa 5 anni.

Il riallineamento della spesa pensionistica distinta per genere è dovuto essenzialmente alla componente delle pensioni dirette. Il riallineamento è previsto dalla normativa vigente, traducendosi in una significativa riduzione delle differenze di genere nei tassi di attività e di disoccupazione e, conseguentemente, nella possibilità di maturare diritti pensionistici.

Il riallineamento della spesa pensionistica fra i due sessi risulta, inoltre, favorito dalla già citata maggiore sopravvivenza delle donne, il che produce un effetto “rinnovo” più contenuto per le donne rispetto a quello dei maschi, rallentando così il processo di adeguamento degli importi medi delle pensioni verso i più bassi livelli mediamente imposti dal sistema contributivo.

​Diversamente, sul versante delle pensioni indirette si registra, per entrambi i sessi, una costante flessione della spesa pensionistica in rapporto al PIL, in maggiore accentuazione in campo femminile.

​Per il complesso delle prestazioni, la spesa per i dipendenti del settore privato in rapporto al PIL, risulta aumentata, per effetto della recessione, raggiungendo il 9,2% nel 2014. Successivamente il rapporto inizia a decrescere, attestandosi all’8,4% nel 2027. A partire da tale anno comincia a riprendere e raggiunge un massimo di 10,4% nel 2052.

​Per i dipendenti pubblici il rapporto tra spesa pensionistica e PIL cresce nella prima parte del periodo di previsione, dal 3,6% del 2010 ad un massimo di 4,2% attorno al 2024. Successivamente scende significativamente, attestandosi intorno all’ 1,8% nel 2060.

​La crescita iniziale è dovuta alla dinamica del numero delle pensioni, mentre la decrescita è determinata essenzialmente dalla riduzione dell’importo medio delle pensioni in rapporto alla produttività.

​L’aumento del numero di pensioni nel pubblico impiego, che dai 2,8 milioni del 2010 raggiunge il valore massimo di circa 3,3 milioni nel 2013, oltre a riflettere il fenomeno del ritiro dalla vita attiva delle pensioni baby, dipende dalle massicce assunzioni avvenute tra gli anni ’70 e metà degli anni ’80.

​Con riferimento ai lavoratori autonomi, la spesa per le pensioni in rapporto al PIL si mantiene pressoché costante intorno al 2% nel primo decennio di previsione, per poi decrescere fino a raggiungere l’1,1% nel 2060.

Secondo gli ultimi dati forniti dall’INPS a marzo 2016, le pensioni vigenti all’1.1.2016 sono 18.136.850 di cui 14.299.048 di natura previdenziale, cioè prestazioni originate dal versamento di contributi durante l’attività lavorativa del pensionato.

L’importo complessivo annuo risulta pari a 196,8 miliardi di euro; di cui 176,7 miliardi sostenuti dalle gestioni previdenziali.

Oltre la metà delle pensioni è in carico alle gestioni dei dipendenti privati delle quali quella di maggior rilievo (95,7%) è il FPLD che gestisce il 49,2% del complesso delle pensioni erogate e il 61,8% degli importi in pagamento.

La gestione dei lavoratori autonomi eroga il 27,2% delle pensioni per un importo del 23,6% mentre le gestioni assistenziali gestiscono il 21,2% delle prestazioni per un importo di poco superiore al 10% del totale.

Le prestazioni assistenziali presentano un tasso di genere maschile costantemente inferiore al 50%; la causa di ciò può essere attribuita ad una maggiore presenza delle donne nelle classi di età avanzata, con maggiore rischio di invalidità; nonché ad una maggiore esposizione alla povertà per il genere femminile; infatti, molte donne in età avanzata, non hanno avuto versamenti sufficienti per la maturazione di una prestazione previdenziale.

Particolarmente eloquenti del problema di cui stiamo trattando sono gli importi medi mensili all’1.1.2016, che risultano così distribuiti:

1- VECCHIAIA: 1.121,70 euro; gli uomini maturano un importo medio di 1.415,23 euro mentre quello delle donne è di 755,17 euro;

2- INVALIDITA’ PREVIDENZIALE: 663,73 euro; gli uomini hanno un importo medio di 801,03 euro mentre quello delle donne è di 532,74 euro;

3- SUPERSTITI: 604,32 euro; gli uomini hanno un importo medio di 411,03 euro mentre quello delle donne è di 630,50 euro;

4- PENSIONI E ASSEGNI SOCIALI: 422,29 euro; gli uomini hanno un importo medio di 427,23 euro mentre quello delle donne è di 419,52 euro;

5- PRESTAZIONI INVALIDI CIVILI: 422,48 euro; gli uomini hanno un importo medio di 404,37 euro mentre quello delle donne è di 434,61.

L’età media dei pensionati è 73,6 anni con una differenza tra i due generi di 4,5 anni (71 anni per gli uomini e 75,5 anni per le donne).

In particolare per le pensioni di vecchiaia il 23% è erogato a persone di età compresa fra i 65 e i 59 anni; tale percentuale si alza al 24,1% per i pensionati di vecchiaia di sesso maschile. Ciò è giustificato dall’elevato numero di pensioni di anzianità liquidate negli anni passati.

Per le pensioni di invalidità previdenziale si rileva che il 59,6% delle pensionate titolari ha un’età uguale o superiore a 80 anni; tale percentuale per i maschi scende al 49,9%.

Anche nell’invalidità civile i titolari di sesso maschile si concentrano nelle prime classi di età, infatti il 54% dei titolari maschi ha un’età inferiore a 60 anni, mentre la percentuale di donne in questa fascia di età scende al 31,9%.

Analizzando la distribuzione per classi di importo mensile delle pensioni, si osserva una forte concentrazione nelle classi basse. Infatti il 63,4% delle pensioni ha un importo inferiore a 750 euro. Questa percentuale per le donne raggiunge il 77,1%.

Se si guarda invece alle classi di importo superiori ai 2.000 euro mensili, queste rappresentano il 9% del totale delle pensioni erogate ma, mentre per gli uomini tale percentuale è del 14,1%, per le donne scende al 2,6%.

Secondo il rapporto INPS 2014 (ultimo rapporto completo disponibile), le uscite per prestazioni istituzionali per quell’anno sono ammontate a 303,4 miliardi di euro di cui 268,8 miliardi per prestazioni pensionistiche e 34,6 miliardi per prestazioni economiche per eventi di carattere temporaneo.

Il 75,2% dei pensionati percepisce una sola pensione per un valore medio mensile di 1.240 euro (910 euro per le donne e 1.536 per gli uomini). Il restante 27,5% cumula due o più pensioni raggiungendo in media 1.541 euro lordi al mese. I beneficiari di più pensioni sono in maggioranza donne (69,1% del totale).

L’analisi di genere fa emergere la concentrazione delle donne nelle classi di importo più basso ed una progressiva riduzione del peso delle donne al crescere delle classi di importo (oltre i 3.000 euro mensili solo un pensionato su 4 è donna).

In conclusione: si può affermare che, oggi, permangono rilevanti differenze di genere nei trattamenti pensionistici che non possono essere ignorati.

Pertanto, appare evidente la necessità di agire ancora sul fronte previdenziale, non tanto attraverso una modifica strutturale dell’impianto legislativo in essere – che, non dimentichiamolo, ha assicurato la sostenibilità dei conti pubblici nel lungo periodo, concludendo una lunga fase di riforme – bensì correggendo, nei tempi e nelle modalità da definire, alcuni limiti e rigidità ancora presenti nel sistema (bassi trattamenti minimi, eccessiva onerosità delle ricongiunzioni, sovrapposizione di bilancio tra prestazioni assistenziali e previdenziali).

 

Mi sembra utile, a questo punto del nostro discorso, sottolineare due annotazioni a margine.

La prima riguarda la eccessiva rigidità in uscita dal lavoro verso la pensione prevista nel sistema attuale, in relazione all’età di pensionamento.

Sono figlie di questo eccesso:

A) la delicata questione degli esodati – che pure è stata affrontata dal Governo e dal Parlamento investendo ingenti risorse e avendo corrisposto il trattamento previdenziale ad un rilevante numero di persone interessate

B) la altrettanto delicata necessità di ricorrere alla opzione donna, che, seppur risponde alla domanda di uscita anticipata, è definita a condizioni onerose per lo  Stato e faticose per le interessate.

È’ diffusa la esigenza di affrontare la problematica introducendo forme di flessibilità in uscita, che peraltro favorirebbero nel sistema produttivo l’avvio un mix generazionale. Come ha opportunamente affermato recentemente il Sottosegretario Nannicini il Governo ha allo studio, in previsione della legge di stabilità, l’intera problematica e la valutazione delle condizioni finanziarie e sociali per poter, eventualmente, intervenire.

La seconda annotazione riguarda la ancora insufficiente diffusione della previdenza complementare. La strada percorsa è importante ed ha prodotto risultati validi. Si pensi alla capitalizzazione accumulata. Per favorirne gli investimenti in economia reale il Governo ha predisposto un importante bonus fiscale. Nondimeno appare necessario, anche alla luce delle precedenti osservazioni sui trattamenti pensionistici in essere e sul tasso di sostituzione di quelli attesi, rilanciare la previdenza complementare favorendone ulteriormente, anche fiscalmente, le adesioni. Un impegno particolare va sviluppato nel settore pubblico che, a tutt’oggi, risulta il meno coinvolto.

Tornando, però, e concludendo, al cuore di questa audizione, è necessario affermare che non possiamo prescindere dalla considerazione che la legge di riforma pensionistica del 2011 (riforma Fornero) ha realizzato il completamento del passaggio al sistema di calcolo contributivo e che pertanto l’importo dei trattamenti pensionistici è, ormai, direttamente dipendente dai contributi versati.

L’attenzione va, dunque, allargata alla regolarità e alla quantità dei contributi versati. Regolarità e quantità che sono determinate dal mercato del lavoro e dalle necessità individuali e/o familiari di ciascuno.

Da questo punto di vista le differenze di genere sulla spesa pensionistica futura saranno sempre più effetto di quanto avviene nella vita lavorativa.

Pertanto, a parità di regole per l’accesso alla pensione e per il calcolo della rendita pensionistica, a determinare le differenze nelle retribuzioni pensionistiche, saranno, dunque, il permanere delle differenze retributive, e quindi contributive, tra uomini e donne.

Come ho affermato, nel corso delle considerazioni che ho fin qui svolto, si intravvedono necessità di assestamento interno al sistema previdenziale, ma dobbiamo con molta chiarezza dirci che la risposta strutturale ai problemi delle disuguaglianze di genere – e non solo – insite nel sistema pensionistico possono essere seriamente affrontarle e risolte se sapremo intervenire a monte, ovvero nella condizione lavorativa e nel mercato del lavoro.

In particolare rafforzando le azioni necessarie a realizzare la completa uguaglianza di retribuzione e contribuzione tra i sessi, a parità di mansioni e di orario di lavoro; nonché migliorando l’offerta di servizi di prossimità alla famiglia e alle persone in modo da consentire ad entrambi i generi di partecipare maggiormente ai lavori di cura, alleviando le donne dal peso che ancora grava prevalentemente su di loro e sul loro non adeguatamente riconosciuto impegno.

Vi ringrazio dell’attenzione.

 

2016-04-06T17:56:57+02:00 6 Aprile 2016|Atti parlamentari, News|

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