L’intervento del sottosegretario all’Economia Pier Paolo Baretta all’Assemblea 2017 Rete Impresa Italia sul tema “Confini: i nuovi scenari internazionali e la stabilità del nostro sistema produttivo” (Roma, 10 maggio 2017).
Ringrazio il Presidente Merletti e tutti i presidenti delle Confederazioni dell’invito a partecipare a questa Vostra Assemblea e di avermi chiesto di contribuire alla Vostra riflessione.
La scelta fatta dalla relazione di porre, oggi, alla nostra attenzione la questione dei “confini”, con l’esplicito obiettivo di superarli, è sintomatico dell’approccio che Rete Impresa Italia persegue dalla sua costituzione: innovare e competere. Affrontare le sfide che la modernità globale ci impone, affermando una positiva cultura d’impresa, che valorizza le migliori qualità dell’imprenditoria italiana: la imprenditività, appunto, prima di tutto; il coraggio di nuove scelte produttive; la qualità del prodotto e del processo; l’orgoglio di appartenere a una categoria produttiva che fa della sintesi tra tecnologia e manualità un suo punto di forza.
Non sto facendo la classica… “sviolinata” che fa l’ospite. Sto, certamente, riconoscendo delle caratteristiche peculiari del lavoro dell’artigiano, del commerciante, dell’esercente; ma, al tempo stesso, sto ponendo, a tutti noi, degli obiettivi che pretendono un miglioramento continuo, un sistematico sforzo di adeguamento e di investimento intellettuale e finanziario.
Questo approccio ci riguarda: riguarda l’impresa e la politica, gli imprenditori, i lavoratori e i loro rappresentanti.
Ristabilire un circuito positivo, un flusso, tra le istituzioni e la società è il principale problema che ci interroga. Non possiamo, infatti, negare la pressante delegittimazione che vivono i cittadini nei confronti della politica. Ci sono, siamo sinceri, responsabilità oggettive e luoghi comuni; colpe e strumentalizzazioni.
Io penso che una delle ragioni principali di questa difficoltà di rapporti dipenda dallo scarto che c’è tra le domande crescenti e mutanti che i cittadini, le famiglie, le imprese pongono ai decisori, incalzati come sono, dalle emergenze che la quotidianità propone loro e le difficoltà istituzionali, finanziarie e politiche a dare loro risposte puntuali, compiute ed esaurienti.
Prendiamo, ad esempio, l’attuale situazione economica. Ci sono fattori oggettivi e soggettivi che pesano sul giudizio che ognuno di noi ha della fase economico-finanziaria italiana.
Su un piano oggettivo, gli indicatori economici, sia quelli riportati nel Def dal Governo sia quelli di istituzioni esterne (Istat, Fmi, Bce, ecc.), confermano che l’Italia è fuori dalla crisi. La crescita è lenta, eccessivamente lenta, ma c’è! La crescita del Pil è costantemente col segno più (troppo poco, lo ripeto), la produzione industriale (dato di Febbraio) cresce quasi del 2% su base annua e nell’artigianato di più perché registra la quattordicesima rilevazione positiva consecutiva, con un recupero dell’11,4% sui minimi del 2013; fa più fatica il commercio, e questa è la principale ragione che induce il governo a scegliere di non aumentare l’IVA, prendendo, nel Def, l’impegno, rilevante come sappiamo, di disinnescare, nella prossima legge di bilancio, le clausole di salvaguardia; ancorché, sapendo che la priorità di ridurre il Cuneo fiscale ha, anch’essa, un’importanza strategica per la competitività delle imprese.
Ma, il punto che mi interessa, qui, rilevare, in rapporto al ragionamento precedente, è che, nonostante questo, la sia pur – dice, giustamente, Merletti – “fragile” ripresa economica non è percepita dalle famiglie, dalle imprese, soprattutto le più piccole. La gravità della crisi che abbiamo vissuto, gli squilibri finanziari, la resistenza al cambiamento, le condizioni economiche e sociali di partenza, impediscono, ai più, di percepire, sul piano soggettivo, i segnali di questa ripresa. La sensazione, dal lato dei cittadini, è che si sia fatto poco, o, al meglio, che i risultati, di quanto è stato fatto in questi anni, siano pur concreti, ma gli effetti arriveranno, se va bene, in un’altra stagione.
Non sfugge a nessuno che questo pone rilevanti problemi da un punto di vista politico. Se manca, infatti, la percezione diffusa e generalizzata che la rotta è stata invertita; che, pur nelle evidenti difficoltà, siamo indirizzati sulla via della guarigione; che possiamo… rischiare perché arriva la bella stagione, anche se ancora caratterizzata da rovesci e piovaschi… se, insomma, non si chiude la distanza, lo scarto sensibile tra aspettative personali e condizioni concrete, si è di fronte a una crisi di fiducia che ha un impatto rilevante sulle opinioni, anche politiche, delle persone e sulle scelte del Governo e degli operatori economico-finanziari. La fiducia, come dimostrano i più autorevoli studi economici, ma, come ben sa, ciascuno di noi, nella sua quotidiana esperienza, è una cosa seria. Non è solo un sentimento, ma è un fattore economico che incide sulle scelte degli investitori, che è in grado di supportare, rallentare o addirittura deprimere i segnali di ripresa che arrivano dalle statistiche nazionali e internazionali.
Ciò crea un cortocircuito in cui si sovrappongono la scarsa propensione agli investimenti, l’accumulazione delle risorse economiche, più in patrimoni immobiliari e in rendite a discapito degli investimenti produttivi, del lavoro e della redistribuzione.
È possibile cambiare questo stato di cose? Come possiamo rispondere a questo quesito, senza illudere che sia tutto risolto, perché non è così e, anzi, c’è molto da fare… ma, anche, senza deprimerci, abbandonando definitivamente le teorie del declino perché non è proprio il caso, o affidandoci al solo elenco delle magagne, che pure vanno rese esplicite e combattute.
Il Presidente Merletti ci ha dato degli spunti importanti e Benedetto della Vedova li ha arricchiti. Non riprendo, quindi, quello che considero, anch’io, il più rilevante: la prospettiva europea, e assumo, in toto, le considerazioni che ho sentito.
Mi concentro, invece, su cosa possiamo fare di più, noi, al nostro interno e indico tre strade.
La prima: definire al meglio e, insieme, un coraggioso disegno di quella che, anche se può sembrare una terminologia desueta, chiamerei ancora oggi “politica industriale”. Una scelta ampia, una visione d’impresa, sarebbe più proprio dire, che faccia leva sulle nostre forze, sulle nostre caratteristiche e sulle straordinarie opportunità italiane.
Che Paese siamo? Siamo il secondo Paese manifatturiero d’Europa, dopo la Germania e dopo la crisi. Guai a dimenticarlo e lo siamo grazie a una struttura industriale fatta prevalentemente di piccolissime, di piccole e di medie imprese, capaci di stare nei mercati internazionali a discapito di un dibattito ideologico, finalmente superato, sulla dimensione. Non perché non sia importante crescere (le imprese non hanno una vocazione al nanismo, se possono crescono!). Ma, perché si è dimostrato che è più importante concentrarsi sull’innovazione e sulla qualità. Certo, l’impresa piccola ha bisogno di strumenti associativi più efficienti, di disponibilità di credito più snella, di semplificazione fiscale maggiore di quella attuale. Gli incentivi alla formazione di reti di imprese, il patent box, gli aiuti alle start-up sono solo alcuni dei veicoli che abbiamo messo in campo, oltre a quelli della riduzione del carico fiscale. La conferma della nostra vocazione industriale e il sostegno alla nostra struttura produttiva deve essere la prima delle nostre strategie di crescita.
Ma, siamo, anche, il primo Paese al mondo per patrimonio artistico e con risorse naturali straordinarie e, come, da vecchio industrialista, quale sono, mi capita spesso di ripetere: i monumenti e il bel tempo non sono delocalizzabili… Sicché dobbiamo esaltare la nostra vocazione culturale e turistica. La scelta di estendere il bonus energetico, al 70% e più, anche agli alberghi (oltre che ai condomini) va in questa direzione.
Infine, siamo collocati in una invidiabile posizione geografica, che ci fa essere un vera e propria piattaforma nel Mediterraneo, tornato, nel bene e nel male, a essere crocevia del mondo e, dunque, abbiamo una naturale, quanto obbligata, vocazione logistica.
Cosa unisce, o deve unire, queste peculiarità tra loro? Il biglietto da visita dell’Italia nel mondo: un’idea assolutamente vincente, applicabile ai bulloni come all’agroalimentare, all’accoglienza come ai servizi alle persone: il Made in Italy! E cos’è il Made in Italy se non qualità e bellezza! Se non capacità di esportare prodotti e di accogliere persone. Ecco la prima grande risposta che dobbiamo dare al nostro futuro.
La seconda strada è aggredire i ritardi che rallentano la crescita. Ne cito solo due.
Il primo è la digitalizzazione del Paese. Siamo in ritardo. Investiamo solo il 4,5% del Pil, contro il circa 7% della Germania e una media europea del 6,6. Finora, però sono stati stanziati circa 13 miliardi, senza contare quelli del provvedimento di Industria (forse sarebbe meglio chiamarla “Impresa”) 4.0. Si è riaperto, dopo anni di successi e anni di oblio, un dibattito sui distretti. Dobbiamo cogliere la novità e organizzarci. I distretti storici erano mono merceologici (del mobile, della scarpa, dell’occhiale, ecc.); oggi possono essere distretti tecnologici, che ospitano più attività merceologiche che sfruttano una comune piattaforma digitale. Si pensi a quanta maggiore vocazione territoriale possiamo valorizzare.
So quanto sia per voi decisivo il secondo ritardo che cito: la semplificazione fiscale. È una discussione controversa in questi giorni di manovra, ne sono consapevole e non lo nego, ma la strada è tracciata. La riduzione dei tempi di pagamento, almeno da parte del pubblico, che sta facendo progressi, e la fatturazione elettronica (che, però, non può, da un lato semplificare le procedure, ma dall’altro aumentare i costi per realizzarla); lo sdoganamento a mare delle merci o l’autostrada digitale per le consegne delle merci sono segni positivi di un percorso che dobbiamo irrobustire.
E arrivo, così, alla terza strada. Una struttura finanziaria efficiente che sostenga questa strategia. Il nostro Paese ha una grande risorsa che è il risparmio privato. Solo la parte mobiliare copre quasi due volte il debito pubblico. Ma la situazione attuale rende prudenti i risparmiatori.
Dobbiamo favorire la circolazione della moneta, come dicevano i classici. Per farlo dobbiamo agire con due mosse.
La prima è completare il processo di riorganizzazione del sistema bancario. Dalla riforma delle banche popolari a quella del credito cooperativo, fino agli interventi annunciati per Mps e a quelli ipotizzati per le due Venete; all’acquisto da parte di Ubi delle tre fallite; alla ricerca di alleanze di altre piccole; all’urgente creazione di un mercato degli Npl, che stiamo favorendo, il sistema bancario italiano sta uscendo da un terremoto che ha bisogno ancora di un processo di riorganizzazione del lavoro e dei servizi. L’obiettivo di tutto ciò è un rapido ritorno a un regolare flusso di credito, soprattutto verso le famiglie e le imprese.
La seconda mossa è, però, altrettanto importante e matura: la diversificazione del credito. Importante perché può, oltre che offrire opportunità, essere di stimolo al sistema bancario per reagire positivamente. Non ho bisogno di citare qui i Confidi. Ma, penso al successo che stanno avendo i Pir o alla crescente importanza dei fondi pensione e delle casse di previdenza nel finanziamento dell’economia reale. La scelta di defiscalizzare del tutto il 5% degli investimenti che fondi e casse fanno a sostegno del tessuto produttivo e dei servizi del Paese è una svolta da sfruttare fino in fondo. Si dirà: ma il 5% è poco! Ebbene il patrimonio accumulato di fondi e casse supera, ormai, abbondantemente i 220 miliardi di euro. Beh, il 5% di 220 miliardi di euro è una bella manovra finanziaria…
Tutto quanto ho detto, però, nasconde, o rivela, il nodo di fondo che, diciamo la verità, tutti vogliamo, ma fatichiamo a praticare: un’irreversibile e coraggiosa strategia di riforme. Siamo, alla fin fine, tutti, tutto sommato, un po’ diffidenti quando le riforme arrivano nel nostro campo.
Siamo un po’ tutti esperti delle riforme degli altri…
È un po’ quello che è successo e che tende a ripetersi. A una forte e sincera domanda di cambiamento si alterna una paura del cambiamento. In questo alternarsi, la politica rischia di incartarsi. Per cui, per un malsano bisogno di consenso senza progetto, c’è chi tende a fomentare le paure o a inseguire obiettivi non sempre realistici. Sono molte le cose che mi hanno colpito delle scelte del Presidente Trump in campagna elettorale e in questo primo periodo. Ma, devo essere sincero, quella che mi ha colpito di più non è la politica dei muri. Non la condivido, ma ci sta. Non è nemmeno l’abolizione dell’Obamacare. Penso sia un grave errore, ma fa parte delle scelte politiche. No, quello che mi ha colpito di più, e lo voglio dire in questa sede, è la disinvoltura con la quale ha affermato di voler abolire il WTO! L’Organizzazione mondiale del Commercio.
Che le Istituzioni internazionali debbano essere riformate, e vale anche per l’Europa, è fuor di dubbio, ma pensare di abolire, in piena globalizzazione, ogni regola del gioco ha del clamoroso, ma anche dell’irrealizzabile.
È come se nelle democrazie mature la decisione nella scelta di una forza politica o di un leader non verta più sullo scegliere chi debba governare il Paese, con le sue complessità e asperità, ma chi possa nell’immediato placare le ansie, i malcontenti, che la crisi ha alimentato, offrendo lenitivi spesso degni di quell’elisir d’amore che “corregge ogni difetto, ogni vizio di natura”.
Se questo rischio, che non appare improbabile, dovesse consolidarsi, saremo di fronte a una tragedia politica, in quanto quello scarto tra attese e risultati, da cui siamo partiti, si accentuerebbe perché, passando inesorabilmente dalla semplificazione elettorale alla complessità del governo, chi governa è destinato, prima o poi, a tradire le promesse elettorali o le aspettative non governate.
È per questo che, al di là delle simpatie politiche, del tutto inesplorate, per la verità, è importante quanto è successo in Francia con l’elezione dell’europeista Macron.
Dunque – e lo dico solo per sostenere un ragionamento di metodo, che va oltre le opinioni di merito su Macron, che, potremmo sostenere, va quasi oltre Macron stesso. Dunque, si possono vincere le elezioni senza rincorrere le paure, ma prospettando un orizzonte, non un confine; senza avvitarsi nel nazionalismo, pur amando la propria nazione o Patria (non si può dire che la straordinaria trovata dell’inno alla Gioia, con il quale ha inaugurato la sua Presidenza, lo abbia reso meno… Francese); avendo a cuore i problemi, il disagio economico e sociale – quelle che con una suggestiva ed esauriente espressione Francesco chiama le periferie esistenziali – ma avendo a mente una sana economia sociale di mercato (altra espressione che sembra dimenticata…) e al tempo stesso garantire sicurezza e “protezione”.
Insomma, dopo la Brexit, dopo l’America, abbiamo temuto che l’onda d’urto, nazionalista e populista, fosse irreversibile. Ebbene, non è così, o, perlomeno, non è detto che sia così…
Grazie e buon lavoro!
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