La relazione dell’on. Pier Paolo Baretta al Corso di formazione politica organizzato dai democratici siciliani a Raffadali, in provincia di Agrigento, sul tema: “POLITICA, ANTIPOLITICA, BUONA POLITICA – Partiti e società nell’Italia di oggi”.
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DEMOS
Democratici Siciliani
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POLITICA, ANTIPOLITICA, BUONA POLITICA,
Partiti e società nell’Italia di oggi
Corso di formazione politica – Raffadali (Ag), 20 luglio 2012
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“La buona politica e i soggetti della Democrazia”
Relazione di Pier Paolo Baretta
C’è un luogo comune che, da sempre, accompagna la politica: e cioè che sia cinica, senza scrupoli morali, tendenzialmente disonesta. Un ambiente infestato di squali.
Ronald Reagan non ci ha certo girato attorno quando dichiarò al Chicago Tribune (1975) che la politica viene definita come “la seconda più antica professione del mondo. Certe volte – aggiunse – trovo che assomigli molto alla prima” .
Più generosamente Henry Kissinger, la divise in due categorie, sottolineando come “il 90% dei politici rovina il buon nome dell’altro 10%”. Le percentuali non sono confortanti, ma è già uno spiraglio…
Come se non bastasse, George Orwell entrò nel merito e disse – per finire con questa bordata di citazioni – che in politica “gli utopisti [vivono] con la testa tra le nuvole, i realisti con i piedi nel fango”.
Insomma, la politica è sporca: punto esclamativo o punto di domanda?
Se questa è l’idea prevalente c’è da chiedersi come mai la politica non sia stata spazzata via, ma al contrario, nonostante i dissensi, i disamoramenti, le ribellioni, essa resista, si rigeneri, nasca, muoia e rinasca in continuazione. Sino al punto che le rivoluzioni, i cambiamenti pacifici o violenti, sinceri o strumentali, vedono puntualmente la luce all’insegna della lotta contro la cattiva politica e in nome della buona politica…
Eppure, quando si parla di “Buona Politica”, spesso, si cade, forse senza accorgersene, nella retorica, in una serie di frasi fatte o di ritornelli poco convincenti. E, mentre la fama negativa della cattiva politica non si logora, anzi si rafforza, la buona politica appare come merce rara, reperibile quasi esclusivamente nel comportamento individuale dei singoli, ma non nei fenomeni collettivi.
Questo perché sempre più persone percepiscono la classe politica come un mondo distante, rinchiuso in se ed autoreferenziale. La politica, si dice, è sparita dalle piazze e si è rifugiata nei palazzi, a nascondere le proprie vergogne.
Ma è davvero questa la realtà? L’illusione ottica è clamorosa. Grillo, col suo populismo, fa politica facendo l’antipolitica e usa la piazza virtuale (anzi ne abusa, se è vera la notizia che una buona parte dei suoi sostenitori sono inventati) con la stessa disinvoltura con la quale la politica tradizionale usava la piazza reale.
E Berlusconi non sostenne, per anni, che lui non era un politico? Anche quando era Presidente del Consiglio da una vita si atteggiava come se fosse uno fuori dal Palazzo? Bossi e i suoi hanno fatto le loro fortune politiche sul “Roma ladrona”, salvo poi insediarsi nella città eterna senza pudore.
E, per fare un radicale salto di qualità, un politico per eccellenza, come Mao, non invitò forse a sparare sul quartiere generale?
L’Antipolitica è solo un gioco di specchi con il quale i politici, o aspiranti tali, cercano di garantirsi il consenso “politico” a buon prezzo, sfruttando quel consolidato pregiudizio di cui abbiamo parlato all’inizio.
La verità è che la politica, buona e cattiva, non è mai solo dentro o solo fuori.
Certo, non possiamo negare che c’è chi si dà da fare per dimostrare, ogni giorno, il volto negativo di questo mondo.
La seconda repubblica è nata sull’onda di tangentopoli (lo scandalo che agli inizi degli anni ’90 hatravolto una intera classe dirigente, non tutta colpevole, in verità); ma agli albori della terza, la corruzione (non solo e non tutta politica) è stimata in Italia in circa 60 miliardi di euro, almeno 4 punti di Pil.
La corruzione, però, è bene averlo presente, è una componente che potremo definire, estremizzando, com “strutturale” della politica. Questo non giustifica nulla, ma ci fa capire quanto la politica sia una condizione intrinseca alla vita umana, non aliena da essa, tutt’altro.
Eppure, tutti sono convinti che la principale componente di una buona politica sia l’onestà. L’onestà personale, a dire il vero, non è di per se garanzia di professionalità e competenza. Ma, indubbiamente, è la cartina di tornasole nella valutazione sulla bontà della politica e del politico.
Sino al punto che questo concetto si dilata e le responsabilità individuali precostituiscono un giudizio collettivo. Penati e Lusi pendono sulla nostra personale credibilità ed onestà, non solo sulla loro, come una spada di Damocle.
Si affaccia a questo punto una domanda tanto complessa quanto interessante. Mentre, infatti, si è propensi ad accettare l’idea che esistano singoli politici onesti, si fa più fatica ad riconoscere la esistenza, in politica, di una onestà per così dire “collettiva”. Anzi, ci si chiede se quest’ultima possa mai.
Cosa intendiamo per onestà collettiva? Il fatto che in una comunità larga quale è, a tutti i livelli, quella politica, tutti i suoi membri, proprio tutti, siano onesti? Beh allora, per la semplice ragione che regola la vita umana, la risposta è no!
Il punto è che, sulla base di questo impossibile assunto totalizzante, si tende a negare che possa esistere una comunità politica onesta, nel senso che non basta nemmeno che lo sia la sua maggioranza, anche ampia. Insomma, la famosa mela marcia che rovina tutto il canestro.
Invece, questo fenomeno di onestà collettiva è molto più diffuso di quanto si dica. Si pensi ai consigli di quartiere, ai consigli comunali e via salendo. Si pensi alle molte storie di militanza, di sacrifici, di esilio, di martirio consumate per la libertà, la giustizia sociale, i diritti: i moti di popolo, la meglio gioventù, la resistenza, il movimento operaio, i partiti, i movimenti.
Anche il Parlamento è così. Infatti, contrariamente, anche in questo caso, al luogo comune che vuole il Parlamento non rappresentativo del Paese, è esattamente il contrario.
Il Parlamento è proprio rappresentativo del Paese.
Dunque, ci sono incompetenti, impresentabili, modesti… ma anche eccellenze, competenze, sensibilità e, come accade nel paese, la maggioranza fa onestamente il proprio dovere.
Ciò non vuol dire che va tutto bene. Tant’è che gli antidoti al fatto che prevalga la devianza vanno aggiornati periodicamente, un po’ come gli antivirus dei nostri computer. Una componente della buona politica è proprio la costante ricerca degli anticorpi e degli antivirus. L’organizzazione del consenso, la metodologia di formazione delle leggi, la semplificazione delle procedure sono elementi necessari per combattere la disonestà politica. Ma, su tutti, l’antivirus più potente è la trasparenza.
La società della conoscenza nella quale viviamo, la facilità di utilizzo e la diffusione degli strumenti tecnologici informatici, che consentono la contemporaneità e la rapidità delle relazioni tra le persone, permettono, molto più che in passato, di fare della trasparenza un valore.
Ovviamente, non è sempre stato così. Anzi, in passato, la visione elitaria del potere garantiva una gestione molto filtrata e mediata della gestione della cosa pubblica. Dice Sun Tzu, nel famosissimo trattato sull’Arte della Guerra, che “dei grandi capi si sa solo che esistono”. Oggi ne conosciamo, come si dice, vita, morte e miracoli.
Si parla molto, in questa epoca, di personalizzazione della politica e sembra un fenomeno contemporaneo. Al contrario la componente personalistica è sempre stata una caratteristica delle leadership. Anzi, nel passato, proprio per effetto della minore trasparenza, il peso del capo era assoluto. Solo che, nel passato, la figura del leader era “protetta”.
Oggi è in pasto alla opinione pubblica, o meglio ai suoi artefici, che sono i media. Meglio, dunque, parlare di spettacolarizzazione, più che di personalizzazione.
E la tesi che i media propongono è che la attuale ondata di antipolitica sia direttamente conseguente alla scarsa qualità dell’attuale classe dirigente e che le diffuse opinioni popolar/populiste sulla casta, sui privilegi, sulle indennità e vitalizi, si giustifichino perché nessuno oggi è ai livelli di un De Gasperi, un Berlinguer, un Moro.
Ma, fino a non molto tempo fa, Berlusconi godeva di un consenso maggioritario e, ahimè, ancora oggi sembra il solo in grado di risollevare la destra. Eppure, per i sui suoi comportamenti privati, per le sue scelte politiche, e nonostante i suoi successi elettorali e le indubbie capacità comunicative, non si può certo dire che sia stato un grande uomo di governo, visti i risultati che ha conseguito e le condizioni in cui ha lasciato il Paese.
Craxi fu dileggiato a suon di monetine e, a parte altri difetti e il fatto che poteva non piacere, non si può certo dire che non fosse un politico di razza. Berlinguer, Pertini, Moro, Martinazzoli, per restare nel nostro campo, sono passati indenni perché percepiti come integerrimi, integri, indipendentemente dalle loro politiche.
Dunque, ho l’impressione che la questione sia più complessa.
E il primo elemento di questa complessità è certamente dipendente dalle caratteristiche del profilo personale dei leader. Bersani è uno dal quale, per usare il famoso esempio, qualsiasi italiano comprerebbe un’auto usata, ma non è detto che basti. Monti è uno al quale lasceresti tranquillamente in consegna il tuo portafoglio (tanto sai che te lo svuota, anche so lo tieni in tasca… ma non terrebbe i soldi per sé); è partito col 70% del consenso ed ora è sotto il 50%.
Dunque, il consenso è un buon criterio per vincere le elezioni, ma non necessariamente per valutare la bontà e la qualità della politica.
Ma, poiché il consenso è il criterio discriminante della democrazia, il problema che abbiamo è come far sì che il consenso si orienti verso la buona politica. E’ un compito del quale, ho l’impressione, ci possiamo fare carico solo noi del PD. Le fatiche che sosteniamo in questi mesi per assicurare al governo Monti il necessario sostegno non sono estranee a questa problematica.
Quello che trapassa il consenso è certamente l’affidabilità. Per affidabilità dobbiamo intendere la coerenza tra il dire ed il fare, tra le promesse ed i risultati.
Questo porta ad identificare, spesso, la politica con l’amministrazione. E la buona politica con la buona amministrazione. E’ un concetto solido ed antico. Il famoso e bellissimo dipinto medioevale di Ambrogio Lorenzetti “Il buon governo” rappresenta la città in armonia nella sua vita quotidiana. Una comunità equilibrata, ben organizzata ed amministrata secondo giustizia. Le cronache di questi giorni, anche locali, ci fanno riflettere seriamente su questo aspetto; ma non voglio, come si dice, parlare di corda in casa dell’impiccato…
Certo, gli amministratori sono spesso dei politici, ma non sempre. E, certe volte, agli amministratori, soprattutto se non politici, si chiede di risolvere problemi che vanno oltre la mediazione politica. La nostra attuale condizione “politica” nazionale ben rappresenta questo snodo. Il governo tecnico è stato chiamato per affrontare una drammatica congiuntura, prodotta da una cattiva amministrazione; quindi da una cattiva politica!
E la carta principale che Monti ha giocato nei confronti del consesso internazionale e dei cittadini è proprio l’affidabilità sua e dei suoi ministri.
Il recupero di credibilità internazionale ha rimesso l’Italia in carreggiata e le ha ridato un ruolo centrale negli equilibri internazionali.
L’amministrazione, la buona amministrazione, il buon governo, necessitano di competenza. E la competenza non è una dote innata. E’ il risultato di un lungo lavoro su di sé: di informazione e formazione, studio ed elaborazione, pratica, esperienza sul campo.
Ai giovani che si sentono attratti dalla politica, dalla militanza, ai quali questa viene rappresentata come una via facile, ancorché perversa, dobbiamo svelare un fondamentale retroscena. La politica, è stato detto, è sudore e fango, spalare fango (la frase originale è, in verità, un po’ più cruda). E’ la verità.
E solo se si è disposti ad accettare questo limite alla, pur giusta ambizione personale, si può provare a fare della buona politica. La buona politica è il risultato di un lungo, silenzioso, faticoso lavoro che si svolge dietro il palcoscenico. Quando – nel bel film di Fred Zinneman, “Un uomo per tutte le stagioni” – l’ambizioso allievo chiese a Tommaso Moro (il santo protettore dei politici) di essere portato a corte, Moro gli dice di no e gli consiglia di fare il maestro. Al che il giovane domanda: “e chi lo saprebbe?”. Moro gli rispose: “Tu, la tua famiglia, i tuoi allievi ed il buon Dio: E’ un buon pubblico!”
La politica, è anche progetto, visione, messaggio.
La Buona Politica non è infatti quella che si limita all’oggi, al qui ed ora, ma piuttosto quella che riesce ad avere una prospettiva di lungo periodo, sostenendola con idee chiare e progetti definiti.
L’idea del politico camaleontico, attento allo spirare delle brezze più leggere oggi è attecchita nelle menti di molti, eppure io credo ancora in una politica di impegno, sociale, attenta e partecipata.
So che ieri si è discusso di radicamento della politica, tra la gente, nel territorio. Una politica radicata passa attraverso la capacità di ascoltare. Non semplicemente di sentire, si badi bene, poiché quello è un mero procedimento meccanico, ma di ascoltare, ovvero di percepire le necessità vere della popolazione.
Si tratta non solo di ricercare una politica che sia Buona, ma che sia al contempo Giusta. Cioè quella per la quale il centro è il cittadino. Un cittadino corresponsabilizzato, partecipe, al quale ci si rivolge argomentando, fornendo spiegazioni, dialogando, pur rimanendo fermi nelle proprie convinzioni. Su questo punto Monti sbaglia.
Proprio i rischi di corporativismo insiti nei fenomeni sociali, proprio la crisi di rappresentanza che coinvolge le grandi forze della politica e della sociètà inducono ad allargare, ricercare il dialogo, il confronto tra tutti i soggetti della Democrazia. La fatica della convivenza è una componente vitale della democrazia, la si chiami come si vuole: concertazione, dialogo sociale, partecipazione, o altrimenti.
Anche quando è necessario avere il coraggio di rispondere di no, e questa fase lo richiede in misura particolare. E’ il caso di coloro i quali si aspettano che lo Stato viva per loro, che trovi loro un’occupazione, che li garantisca sempre in tutto, che li imbocchi anche quando hanno il cibo a portata di mano. Un programma che unisca questi tre caratteri: attenzione al cittadino, sguardo proteso al futuro e coraggio nelle scelte (anche a costo di qualche sconfitta), potrebbe ben definirsi come Buono. E sarebbe senz’altro Giusto.
Una politica che non regala pesci, ma che piuttosto insegna a pescare.
E se mi si chiedesse, com’è in effetti accaduto, cos’è che fala Buona Politicaoltre ad ascoltare e preoccuparsi, risponderei che essa analizza, e trova risposte.
Se è vero com’è vero che il tempo delle ideologie è finito, oggi la distinzione politica è fra chi fa e chi parla.La Politicadeve ritrovare il coraggio, perché non si tratta più soltanto di amministrare un paese, ma di guidarlo.
Tutto questo è reso più urgente e drammatico da questa nostra condizione attuale: la grande crisi che stiamo attraversando si diffonde ovunque, mietendo vittime. In Europa, alla stregua delle invasioni barbariche, travolge nel suo corso ogni villaggio, città, campagna. Per le popolazioni invase, per i perdenti, non è prevista pietà. Le offerte economiche ed i sacrifici umani che vengono richiesti non garantiscono tregua. La posta si alza di volta in volta e quando non hai più niente da dare sei considerato insolvente e, dunque, colpevole.
Siamo ad un tornante della Storia!
Tutti i valori di riferimento politici vengono alterati: uno Stato sovrano può, come una qualsiasi società per azioni, venire dichiarato fallito.
Ogni tecnica economica sconfitta: manovre di una pesantezza senza precedenti, che comportano conseguenze di lungo periodo, vengono annullate, bruciate, in poche ore dalla variazione di alcuni punti di spread.
Come nella peggior meteorologia, ogni previsione viene smentita.
La società occidentale si sta incartando. La gente è disorientata, le famiglie impaurite, i lavoratori e gli imprenditori come bloccati. E’ in gioco l’idea stessa di Futuro.
Eppure, la piena coscienza di questa gravità e delle sue possibili conseguenze non c’è. Sono in atto tentativi di rimozione. I ricchi spostano altrove i loro capitali alla ricerca di migliori rendimenti. I poveri fanno la stessa cosa: “investono” i loro pochi soldi nella ruota della fortuna. Il gioco on-line e le macchinette nei bar di periferia sono ormai tra le più sicure ed importanti entrate fiscali, dando vita ad un drammatico fenomeno collettivo, ad una vera e propria malattia sociale, che ormai ha addirittura un nome: “ludopatia”.
La politica (buona e cattiva) appare impotente, impacciata, rassegnata, lenta.
C’è chi si illude di cavarsela introiettando acriticamente la filosofia dei mercati o, al contrario, chi pensa di respingerla in blocco. In entrambi i casi è una posizione sterile. Ne è la dimostrazione il bizantino dibattito se Monti sia di destra o di sinistra, o quello manicheo sulla famosa lettera della BCE (la madre di tutte le manovre), osannata o demonizzata. Da quelle discussioni non è venuto alcun contributo autonomo alla soluzione dei problemi del debito e della crescita.
C’è chi, invece, strumentalmente ignora la realtà; come ha fatto il centro destra in questi anni e fa tutt’ora quando teorizza l’uscita dall’euro.
C’è, infine, chi rimuove i problemi sostenendo che la colpa è tutta dei tedeschi e che l’austerità non serve.
La verità è che la politica vive una crisi d’identità che è ben più profonda anche di quella rappresentata dal semplicistico dibattito sulla casta, sui privilegi, sulla rappresentanza, sulla democrazia, sulle primarie. Non sottovaluto, sia chiaro, nessuno di questi problemi; li considero tutti importanti e penso che a ciascuno di essi debba essere data una risposta.
Ma il punto che voglio provocatoriamente evidenziare è che, se il contesto è quello descritto, Grillo, Di Pietro, Travaglio, Stella, si occupano della crosta, e di questioni, tutto sommato, marginali.
Una vera discussione sulla buona politica deve, infatti, andare coraggiosamente al cuore del problema e interrogarsi sul rapporto tra politica, democrazia e mercati.
In ordine ad almeno due prioritari aspetti: La fine del mito della crescita continua e la lentezza della democrazia.
Accenno brevemente ad alcuni elementi che, con riferimento ai questi due punti, potrebbero contribuire a definire, nel contesto di questa crisi, quella che potremo chiamare un “agenda della buona politica”.
Nei decenni recenti abbiamo goduto di una crescita tra le più intense della storia. Questo ha consentito all’occidente, in particolare, di diffondere benessere – welfare, servizi, comodità – ad uno strato ampio della popolazione. A questo benessere si è accompagnata una visione esasperatamente consumistica della vita. L’idea, sostenuta dal pensiero unico, era che ci potesse essere una crescita infinita. Oggi constatiamo che non è più così. Ci attende un periodo di minori disponibilità, anche perché la globalizzazione fa sì che tutti siedano a tavola e la crescita demografica fa si che quei tutti siano, senza giri di parole, sempre di più.
Una cattiva politica ha permesso che, nel pieno di quella straordinaria crescita, aumentassero in misura clamorosa le disuguaglianze ed una cattiva finanza, che non ha trovato sulla sua strada una buona politica, ha sciupato tutto quel benessere accumulato. Oggi, una buona politica deve, nel pieno della crisi, discutere del modello di sviluppo.
A partire dalla convinzione della impraticabilità di una uscita dal tunnel con le stesse modalità, regole ed equilibri con cui ci siamo entrati.
Ecco che, se siamo in tanti e ci siamo tutti, se la convivenza globale obbliga ad una distribuzione più equa, non solo perché è giusto, ma perché è necessario per ridurre i conflitti e garantire un equilibrio democratico; se, al contempo, il ciclo non cresce all’infinito, bisognerà liberare risorse ed evitare di sprecarne. La cattiva politica ci può illudere che vivremo senza limiti, la buona politica ci aiuta e ripensare ai nostri consumi, a rendere sostenibile lo sviluppo economico, ambientale, sociale…
Non piace il termine austerità? Parliamo di sobrietà, di non spreco. Personalmente non credo alla decrescita felice. Non penso che dobbiamo pensarci tutti più poveri. Credo, al contrario, che il problema della crescita sia decisivo per assicurare la diffusione del benessere. Ma sono intimamente convinto che dobbiamo discutere della qualità di questa crescita. Il benessere non è solo più auto, più elettronica, ma, tanto per dirne una, anche più welfare. La tecnologia informatica a servizio dell’industria automobilistica è anche al servizio dell’industria medica. E’ il concetto di business che deve cambiare.
Si pensi, per un momento, agli sprechi del nostro modello di vita. Lo spreco alimentare, quello energetico o idrico. Sto parlando anche degli sprechi individuali, privati, che facciamo ciascuno di noi. Traduciamo in Pil questo spreco e pensiamo a come reinvestire le risorse liberate.
E, a proposito di risorse liberate, chiediamoci: tenere i bilanci in rosso è buona politica o no? La risposta evidente è no.
Allora, l’abbattimento del debito (il nostro arriva al 123% del Pil, ogni italiano ha in carico circa 30 mila euro di quei quasi 2000 miliardi), il risanamento dei conti pubblici per liberare risorse bloccate da burocrazie miopi o da inefficienze organizzative, vanno percepiti come virtù, non costrizioni.
Per realizzare questo obiettivo non bastano politiche ordinarie. Penso che servano tre mosse contestuali.
Prima mossa: una importante dismissione del patrimonio pubblico. Finalmente il governo ne parla, ma dobbiamo stimolarlo a fare di più. Seconda: una patrimoniale o un contributo straordinario del tipo tassa sull’Europa.
E terza, poiché senza crescita anche una linea come questa potrebbe rivelarsi effimera, destinare tutto il ricavato della lotta alla evasione all’abbattimento progressivo delle tasse su lavoro e impresa e incentivare opere infrastrutturali con aiuti fiscali e destinandovi qualcosa come la metà dell’avanzo di bilancio prossimo venturo.
In una situazione come questa, una buona politica è quella che propone ai cittadini una concezione equa e solidale della vita pubblica, una visione qualitativa dello sviluppo, una politica basata sul principio positivo che il risanamento non è rinuncia, e che la sobrietà è libertà.
Che ci stanno a fare i progressisti se non propongono ciò. E cosa pensiamo che la gente chieda a noi, se non questa capacità di tenere insieme la gestione delle difficoltà, di cui sono ben coscienti, con la prospettiva di serenità. Voglio dire che c’è una bella differenza tra benessere e spreco e tra serenità e comodità.
Tuttavia questa ambiziosa visione pone un grandioso problema politico. La qualità della nostra democrazia,
Nello scenario mondiale si sono insediati da protagonisti nuovi popoli che vivono in nazioni grandi come continenti. Dalla loro esperienza impariamo che non esiste un solo modello capitalistico, ma più capitalismi e dalla globalizzazione impariamo, a nostre spese, che la velocità di movimento dei capitali surclassa le modalità tipiche delle regole democratiche.
La democrazia è lenta. Una buona politica deve porsi con urgenza questo problema. Facciamo solo pochi esempi semplici, ciascuno dei quali ha implicita una risposta che non è nemmeno necessario argomentare. L’elenco, peraltro è molto lungo.
Nello spazio in cui il bicameralismo vara una legge avvengono decine di decisioni nei mercati finanziari che spostano il terreno di confronto ben oltre.
Il fondo salva Stati, ottenuto dal nostro governo nel recente vertice europeo, andrà come è ovvio ratificato dai Paesi membri e non entrerà in vigore fino a che non sarà approvato dal 90% dei 27 Stati UE. Siamo molto indietro. Sicché, se uno Stato, l’Italia ad esempio, lo volesse utilizzare, non lo troverebbe disponibile.
L’Europa a27 hadei cicli elettorali diversi per ciascuna nazione, il che fa si che ogni anno, e più volte nell’anno, ci siano delle elezioni che potrebbero cambiare le politiche europee. Agli occhi di un investitore, non dico uno speculatore, questa si chiama instabilità.
Quando i mercati parlano di instabilità politica, dobbiamo decisamente respingere al mittente la loro critica se si riferisce al valore della politica in sé o al colore dei governi, ma dobbiamo anche cogliere i giusti messaggi e anticipare con altrettanto decise riforme che snelliscano e semplifichino le dinamiche decisionali.
Una capacità della politica di riformare se stessa su questo impegnativo versante la legittima sull’altro, forse più delicato, che è quello di intervenire con autorevolezza in una nuova, più audace regolamentazione dei mercati finanziari. Non ho il tempo per approfondire il merito. Dico solo che questa è la nuova frontiera nella quale si giocherà, assieme al controllo dei beni comuni (acqua, cibo, energia e reti) la partita del potere nel XXI secolo. Dalla sua soluzione dipenderà il futuro della democrazia e la vita di milioni di persone le quali, non dimentichiamolo mai, se guardano a noi con diffidenza, ci chiedono, però, di dare soluzione ai loro problemi, al loro vissuto quotidiano. Come diceva con disarmante lucidità Totò: “A proposito di politica…ci sarebbe qualcosa da mangiare?”
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