Oggi il Corriere del Veneto pubblica una lettera dell’on. Pier Paolo Baretta in risposta ad un articolo di Umberto Curi del 27 febbraio.
Caro direttore,
la strigliata di Umberto Curi verso una indistinta «sinistra» veneta – appena a valle di un voto così complicato e per molti versi inatteso – non può andare perduta. Innanzi tutto perché manifesta, pur nella critica talvolta ingenerosa, un interesse-attesa nei confronti del fronte progressista e in secondo luogo perché, anche dove sbaglia, propone una riflessione decisiva per il futuro della nostra regione. Che noi (il Pd e il centrosinistra) non abbiamo intercettato il sommovimento politico che, anche in Veneto, ha scosso le fondamenta del consenso elettorale è, ahimè, dimostrato dai numeri che ci inchiodano a una percentuale del tutto insufficiente a rendere praticabile un progetto politico. Ma che questo significhi che non abbiamo capito quanto stava succedendo è sbagliato. Non esiste, in politica, alcun automatismo per il quale la comprensione e l’interpretazione di un fenomeno è garanzia di successo. Lo dico perché, se non si coglie questo punto, tutta l’analisi prende un’altra strada. Infatti, la tesi che la «sinistra» non capisce la società è vecchia quanto i vecchi stereotipi sul modello veneto considerato cattivo solo perché in Veneto governavano altri. Dibattito tipico di alcuni ambienti intellettuali negli anni pre-Lega. Peraltro è fin troppo facile ricordare, ma è corretto non dimenticarlo, che le città di Venezia, Padova, Vicenza e Belluno e la provincia di Rovigo sono rette da… progressisti. Aggiungo che, stante quanto si sentiva dire e si è visto in campagna elettorale, ci si poteva aspettare che la comprensione del profondo Veneto, almeno quello imprenditoriale e del lavoro autonomo, fosse più alla portata di Monti o, addirittura, di Giannino… così non è stato. In questo mese di campagna elettorale abbiamo incontrato tutta la società veneta (categorie economiche, lavoratori…) e abbiamo ben colto il profondo malessere e rabbia che la attraversano. Eppure non è bastato. La ragione non sta nel fatto che non abbiamo capito e, nemmeno, in verità, che non siamo stati capiti. La ragione sta nel fatto che non siamo stati vissuti come l’alternativa. Perché, più a torto che a ragione, ma tant’è, siamo considerati corresponsabili della mancata soluzione dei gravi problemi economici e istituzionali (dalle tasse alla casta) e noi non siamo riusciti, per un eccesso di… perbenismo, a scrollarci di dosso l’odore. Abbiamo fatto bene a fare una campagna elettorale fondata sulla verità e non sulle bugie, sul rispetto e non sull’insulto, ma non era solo questa la domanda che è stata fatta alla politica da una società smarrita. Il problema non è l’alternativa, come è stato detto in campagna elettorale, se parlare alla testa o alla pancia. La verità è che nessuno ha parlato al cuore. Noi abbiamo parlato alla testa e Ber-lusconi e la Lega alla pancia. Al di là dei calcoli sulle rimonte o meno del cavaliere, abbiamo perso entrambi milioni di voti. Grillo non ha offerto soluzioni ai gravi problemi della gente, ma ha evocato sentimenti. Negativi, di rifiuto, ma non solo di interessi. Riconosciamolo: è quello che è andato più vicino alla profondità del vissuto della gente, non necessariamente o soltanto al portafoglio. Ma vi è un secondo punto che merita di essere considerato. E, cioè, la complessità della rappresentanza della società veneta. Altrimenti sembra quasi, nell’analisi di Curi, fin troppo lusinghiera nei nostri confronti sul punto, che nel Veneto ci sia solo la «società» genericamente intesa – il popolo veneto – e i progressisti che non la comprendono. E non, oltre agli altri partiti che legittimamente combattono, quel ricco e complesso formicolio di associazioni di impresa e sindacali, di istituzioni civili culturali e religiose, di «casse peote» e di bocciofile che interagiscono e fanno – giustamente- «politica» e la influenzano. Quando, solo per fare un esempio, gli artigiani dichiarano di votare 5 stelle perché traditi dalla Lega, esprimono il malumore dei rappresentati. Ma insieme, non ciascuno in pro-pio, cosa proponiamo loro che coniughi la tutela di interessi e prospettive? Voglio cioè dire che nella nostra matura società veneta non esiste più un’egemonia culturale forte quale quella rappresentata per lungo tempo dal mondo cattolico e dalle sue espressioni politiche associative. Quando dico egemonia non intendo il controllo elettorale, tanto più se fondato sull’appiattirsi sugli umori della società, come con successo elettorale, ma con disastri culturali, hanno fatto la Lega e Pdl, ma la capacità di interpretare i fenomeni per proporre un progetto di sviluppo e di convivenza convincente e perciò vincente. Lega e Pdl, che per primi hanno compreso, molti anni fa ormai, il cambiamento economico e le sue conseguenze sociali hanno, però, prodotto un modello culturale che ha finito per disprezzare i valori tipici del nostro vissuto. Il Veneto, ben lo sappiamo, è terra di lavoro e di impresa. Di fare e saper fare. È terra di solidarietà, di mutuo sostegno interpersonale e famigliare. Il rapido benessere diffusosi nella società veneta, molto più rapido dell’aggiornamento dei canoni culturali che lo precedevano, che (ecco un altro punto critico per noi) una visione prevalentemente operaista non ha colto, è stato incanalato dalla cultura leghista e pidiellina in una prospettiva di separazione netta tra l’arricchimento privato, affidato ai singoli, e il benessere pubblico, delegato allo Stato, dal quale, tutto sommato, si pretende che sostenga e non chieda. Che le tasse siano troppe non c’è dubbio, ma che il messaggio della classe politica maggioritaria sia stato ambiguo sulla legalità fiscale è altrettanto chiaro. Che l’impresa sia centrale è indiscutibile, ma che i nodi ambientali e di tutela del territorio prevedano regole è altrettanto vero; che il lavoro sia sacro è condiviso, ma che vada da un lato rispettato e meglio retribuito e dall’altro finalizzato alla crescita dell’impresa e non all’antagonismo è altrettanto necessario. Allora il salto di qualità è urgente e necessario. Ma va chiesto a tutti. Dopo questo voto non ci sono più alibi per nessuno. Infine, non so con chi ce l’abbia Curi, ma a Roma, per il Pd, dal Veneto, ci va una nuova leva di giovani e donne (il 40%), scelti per il 75% con le primarie. Si poteva farle meglio, ma, almeno, le abbiamo fatte. Incoraggiamoli, non deprimiamoli. Noi ripartiremo da qui.
Pier Paolo Baretta
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