Fondo risparmiatori, Baretta: “Era doveroso, oltre che necessario, dare una risposta”


A Loreto, nel corso del secondo convegno annuale sul Rapporto Banca e Impresa fra Diritto ed Economia, il sottosegretario all’Economia, Pier Paolo Baretta, ha parlato del Fondo di ristoro per le vittime di reato bancario 

 

 

Ringrazio gli organizzatori per l’invito, che ho accolto molto volentieri. Dovrei supporre che questa sia la mia ultima uscita pubblica nella veste di sottosegretario all’Economia (anche se, per la verità, è ormai più di un mese che mi capita di rinviare i saluti).

Mi fa piacere che ciò avvenga parlando di una delle iniziative più delicata, ma, al tempo stesso, interessante, che ho avuto il compito di seguire: il fondo di ristoro per le vittime di reati finanziari, creato con l’ultima legge di bilancio.

 

Il fondo è destinato a rimborsare i risparmiatori che abbiano subito un danno ingiusto, ovvero siano state vittime della violazione degli obblighi di informazione, diligenza, correttezza, e trasparenza, previsti dal Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria del 1998.

Il Fondo nasce a seguito dell’esplodere della crisi delle due banche popolari venete (Banca Popolare di Vicenza e Veneto banca). Crisi che ha comportato pesanti perdite per i risparmiatori, in particolare gli azionisti, a causa di comportamenti, ritenuti immorali, quando non legalmente perseguibili, perpetrati dagli Istituti nella collocazione dei propri prodotti finanziari; nel caso specifico, soprattutto delle azioni.

Le azioni, infatti – conviene partire da qui -, erano proposte dai gestori aziendali e percepite dai clienti-soci, più come un titolo di fedeltà, un libretto di risparmio, quasi un Bot o Cct, quindi, considerate sicure, prive di rischio e non uno strumento finanziario vero e proprio – quale, in effetti, esse sono – e, perciò, soggetto a tutte le intemperie del mercato.

Questo equivoco, grave, ma consolidato nel sentire comune, ha retto per molto tempo. Almeno sino a che, col provvedimento di riforma delle grandi banche popolari, abbiamo “tolto il coperchio”, rendendo evidente che la gestione familistico-localistica, assicurata dal voto capitario, non si addiceva più a Istituti con oltre 30 miliardi di patrimonio, soggetti al controllo della BCE e, in molti casi, quotati e diffusi nel territorio nazionale e internazionale, ben oltre la dimensione esplicitamente di territorio che costituisce una delle specificità delle banche popolari.

Questo è un punto decisivo, perché una parte degli azionisti e del mondo politico (anche quello che si appresta a governare…), sostiene che la crisi delle popolari venete è dipesa dal decreto di trasformazione in Spa. Al tempo stesso, accusano, con qualche ragione, per la verità, la vigilanza di scarsi controlli e richiamano, giustamente, Zonin e Consoli alle loro oggettive responsabilità.

Ma, delle due, l’una: o gli Istituti hanno maturato una crisi precedente al decreto (e così è!) e allora il decreto stesso interviene, in maniera condivisibile o meno, su un corpo malato per salvarlo, o se il decreto è l’origine dei guai, vuol dire che prima tutto andava bene e non è così.

 

La diatriba è chiaramente risolta a favore della crisi preesistente dai dati di mercato, dalla magistratura, dalla commissione parlamentare di inchiesta. Ma, non è affatto una disputa oziosa, perché è in ragione dell’affermazione che il decreto del governo è la causa della crisi, che viene motivata la richiesta, da parte degli stessi, che sia il governo, o meglio lo Stato, a effettuare un rimborso pieno di quanto ciascun azionista ha perso, per la sola ragione di essere azionista che, in quanto tale, è stato truffato dalla banca. Banca che, però, non può più rimborsare, essendo liquidata. Intervenga perciò il governo in quanto ha sciolto la popolare obbligandola a trasformarsi in Spa. In tal modo l’azionista cambia fisionomia e diventa alla pari di un correntista.

È del tutto evidente l’ambiguità teorica di questa tesi, nonché la sua, diciamo così, complessità giuridica e, non ultimo, la sua impraticabilità finanziaria.

Ma sarebbe sbagliato liquidare questa irricevibile richiesta senza interrogarci sulle cause profonde che la motivano. È del tutto evidente che nella mentalità veneta – utilizzo il caso come paradigma – si è consolidata, nel tempo, l’idea che la banca, la banca popolare in particolare, era vissuta, nel territorio, nel paese, generalmente piccolo, nelle imprese e nelle famiglie, come la “mia” banca. Non nel senso della proprietà, ma nello stesso approccio confidenziale che fa dire: la “mia” casa, la “mia” fabbrica o azienda, il “mio” quartiere, la “mia” parrocchia, il “mio” bar, la “mia” banca, appunto. Il numero straordinariamente alto di soci, la filantropia delle fondazioni, la particolare dimensione territoriale e industriale hanno favorito ciò.

Approccio, peraltro, non ingiustificato: la storia positiva delle banche popolari e del credito cooperativo, della cultura mutualistica e solidaristica in generale, viene da lontano ed è parte importante della storia fortunata del capitalismo in Veneto.

 

La sovrapposizione tra la dimensione soggettiva del socio e quella oggettiva dell’investitore, ha determinato, in quel contesto culturale, una confusione tra i due ruoli; sicché, nel momento in cui la crisi delle due banche, inserita nella più generale e grave crisi economica, ha spezzato questo legame ambiguo, è esplosa una drammatica crisi di fiducia popolare verso la finanza e le banche.

Gli effetti sociologici di questa crisi di fiducia non sono stati, a mio avviso, ancora adeguatamente studiati. Lo meriterebbero, invece, per le conseguenze che hanno e che avranno sui comportamenti soggettivi e collettivi di una regione altamente produttiva, con una forte propensione al risparmio, ma, come si è visto, con una scarsa educazione finanziaria.

 

Che vi fosse stata una colpevole gestione del risparmio, attraverso offerte di investimento o obbligate (lo scambio azioni contro credito o mutui) o largamente esposte alla speculazione e, dunque, non coerenti con lo spirito di deposito/investimento, che ispira i soci delle banche popolari, era chiaro da tempo. Tant’è che, nel giugno 2016, in una audizione alla Regione Veneto, affermai che: “La crisi di fiducia verso il sistema bancario, che oggi appare diffusa ed alla quale è urgente porre rimedio, trae origine non soltanto dalle perdite materiali, in taluni casi rilevanti, che molti cittadini veneti hanno subito, ma anche dalla percezione di “tradimento” del mandato che accompagna queste vicende. È necessario e urgente ricostruire un clima sociale favorevole, che ripristini un circuito virtuoso tra persone, famiglie, imprese, istituti di credito, istituzioni, che è stato uno dei fattori principali, se non il principale, che ha consentito al Veneto e al suo modello di sviluppo di raggiungere i rilevanti successi che ben conosciamo. Per risalire la china dobbiamo definire una strategia condivisa tra tutti gli attori”.

 

Questa strategia, però, non ha preso corpo. Dopo un abortito tentativo di fusione (sostenuto soltanto dal governatore Zaia e dal sottoscritto) la crisi è arrivata al capolinea. Il governo aveva in mente di effettuare l’intervento precauzionale, come avevamo fatto da poco in Mps. Ma, la Bce e la Commissione volevano un segnale da parte del mercato con l’apporto di circa un miliardo.

Questo apporto non ci fu. Da un lato, per l’assenza della politica veneta: il presidente Zaia, sino alla fine ha sconsigliato gli imprenditori veneti a investire sul salvataggio delle due banche e l’opposizione, ovvero il Partito democratico, non ha esplicitato, salvo singoli dirigenti, una propria coraggiosa linea sulla crisi dei due istituti. Dall’altro, per debolezza imprenditoriale: gli imprenditori erano parte del problema avendo per anni gestito le banche, avrebbero dovuto sentirsi corresponsabilizzati nella soluzione; che, peraltro, vista la posta richiesta, era assolutamente alla portata degli imprenditori veneti.

Si è così persa una straordinaria occasione per dare una soluzione innovativa alla crisi, attraverso un intervento pubblico a tempo (i risultati di questi giorni di Mps lo dimostrano). Ma, anche, per ritessere quel clima di fiducia spezzata che sta alla base della nostra riflessione.

 

Non aver accettato la sfida ha costretto il governo ad operare lo stesso un salvataggio (molti avevano scommesso sul fatto che non ci saremo riusciti o non ci avremo nemmeno provato), evitando, comunque, il bail-in, ma certo, più sulla difensiva. Il che ha accentuato le fatiche – e le incazzature – degli investitori-risparmiatori, ma, probabilmente, ha reso più evidente che bisognava affrontare il nodo delle perdite soggettive accumulate dai soci.

 

È in questo contesto, non certo dei più favorevoli, che si è sviluppata l’idea del fondo. Ho voluto richiamarlo, il contesto, perché ci consente di comprendere le difficoltà nella quali abbiamo operato.

Il decreto di salvataggio è del giugno scorso. Immediatamente dopo si muovono le Associazioni dei risparmiatori. Sono molte: più di dieci e non riguardano solo i veneti, perché entrano in campo anche quelli delle 4 banche (Etruria, Marche, Chieti e Ferrara) per i cui obbligazionisti era stato già istituito un fondo di solidarietà nel dicembre 2015, con la legge di stabilità 2016, che prevedeva, oltre al ricorso al giudice, un arbitrato affidato ad Anac e la possibilità di ottenere un rimborso automatico dell’80%. A fronte di ciò erano previsti dei limiti di accesso di 30 mila euro di reddito o di 100 mila euro di patrimonio.

Quello, però, che è esploso, soprattutto dopo la liquidazione coatta, non era tanto la questione degli obbligazionisti (che nel decreto di liquidazione coatta hanno avuto delle risposte di protezione) quanto quella degli azionisti. Tema controverso in diritto e in politica. Come ho detto gli azionisti delle due banche venete, riuniti in Associazioni di rappresentanza hanno chiesto a vario titolo il rimborso di quanto avevano perso, considerato come un diritto.

 

Non sfugge ai partecipanti a questo incontro che sostenere a priori la giustezza di rimborsare un’azionista, per il solo fatto che ha perso perché l’impresa sulla quale ha investito è andata male, significa trasformarlo da investitore che si assume il rischio del proprio investimento a “garantito”, snaturando il diritto e le regole di mercato e dando vita a un’originale condizione (ben migliore del reddito di cittadinanza) per la quale quando guadagni te li tieni e quando perdi te li ridanno… Nonostante i più arditi consensi politici a questa ipotesi (che ha persino portato il più autorevole sostenitore di questa linea a essere candidato col Movimento5Stelle), si trattava di una strada impraticabile culturalmente e politicamente, alle quali mi sono e ci siamo opposti.

Al tempo stesso, era innegabile che la situazione si era deteriorata e le perdite economiche avevano colpito, come la pioggia, i buoni ed i cattivi; ovvero coloro che coscientemente gestivano i loro rischi e, forse, speculavano anche su questa congiuntura, ma, anche, coloro, e sono i più, che, in assoluta buona fede, per quel principio fiduciario di cui ho parlato prima, si erano del tutto affidati alla banca e ai suoi consigli.

 

Potevamo noi, potevano la politica e le Istituzioni, potevo io, personalmente, per le responsabilità che avevo di sottosegretario con delega al settore banche del Mef, ignorare tutto ciò e rimanere ingessati al giusto presupposto che l’azionista è, per sua natura, un soggetto a rischio? Potevamo ignorare che il bacio delle… “baciate” è mortale, soprattutto per i più deboli? Che lo scambio concessione del mutuo contro acquisto di azioni, applicato alla maestra pensionata o alla giovane coppia, era una prassi inaccettabile?

Era doveroso, oltre che necessario, dare risposta a queste domande.

E la risposta è venuta a seguito di un travagliato percorso di confronto, scontro, incontro tra il governo, nella mia persona, alcuni colleghi parlamentari e le Associazioni di rappresentanza dei risparmiatori, da un lato; ma, dall’altro, anche attraverso un serrato confronto interno con i responsabili del Tesoro che hanno condiviso questa esigenza politica e aiutato una soluzione che stesse in piedi.

 

I primi incontri con le Associazioni sono stati particolarmente difficili. L’esasperazione delle persone, alimentata, come sempre succede, da capipopolo, portava a un nulla di fatto. Sembrava inutile continuare.

Personalmente, sono stato oggetto di attacchi indecenti. Ma, anche qui la domanda: potevo io, ovvero poteva il governo, sottrarsi, anche se in condizioni di evidente pressione negativa? La risposta, per me stesso, è stata che non potevo rinunciare al confronto. Non si tratta di bon ton istituzionale. Ho pensato, invece, che, senza il confronto, senza qualcuno con cui prendersela, senza qualcuno, fosse anche il sottoscritto, il governo per mio tramite, che fungesse da capro espiatorio, il rischio era peggiore: che l’esasperazione sfociasse in disordini.

Inoltre, ho valutato che, vista la situazione, se c’era una strada, la si poteva individuare solo nel fuoco delle piazze, non certo nei corridoi dei ministeri. Sia chiaro: questa affermazione non è populismo; è il contrario! Era per trovare la via di uscita, non per ingorgare il traffico.

Il punto di scontro è sempre stato sulla figura dell’azionista, il punto di incontro sul riconoscimento che si era prodotto un danno collettivo.

 

Dopo lunghe discussioni cominciò a farsi strada l’idea che se il danno era stato ingiusto allora non c’era motivo di distinguere tra il correntista, l’obbligazionista e l’azionista. Il danneggiato ingiustamente è, prima di tutto un danneggiato. Una vittima e, di conseguenza, poteva essere rimborsato.

Ma da chi? E come? Bisognava, evidentemente, individuare una formula che rendesse giuridicamente possibile questa operazione. E qui ci è venuta in soccorso… Serenella. Mi sono, infatti, ricordato subito di quanto avevamo fatto nel caso che ci ha portati a “inventare” il Fondo per le vittime da mancati pagamenti. Era un precedente interessante, al quale si affiancavano altri due precedenti: il fondo per le vittime dell’usura e il rimborso per i famosi bond argentini (finanziati con i fondi dormienti).

 

Ho studiato i casi e con questo bagaglio ho ripreso i contatti con le Associazioni. Alcune di loro hanno intravisto che c’era, da parte del governo, la volontà di trovare una soluzione e saggiamente hanno detto: vedo. Così si è cominciato a ragionare insieme e il risultato è stata l’idea di un “fondo per le vittime di reati bancari”. Dove la presenza del reato giustificava il ristoro anche all’azionista.

Il passo successivo era giustificare l’uso di denaro pubblico per rimborsare alcuni e, soprattutto, trovarlo.

Nel frattempo avevamo condiviso con Banca Intesa la possibilità che loro istituissero un fondo per ristorare le situazioni più disagiate. Alla fine Intesa ha stanziato 100 milioni. Devo dire, sinceramente, che questo fatto mi è servito molto nei colloqui col Ragioniere generale dello Stato – che ha condiviso pienamente la logica politica del fondo, ma che, ovviamente, non è, propriamente, di… manica larga, – per sostenere che di certo non potevamo come governo essere di meno di una banca. Così dai 50 milioni iniziali siamo passati, in seconda lettura, ai 100 attuali. Tutti coloro che hanno disprezzato questa cifra (certamente insufficiente, ma non disprezzabile) saranno, a breve, chiamati a implementarla e sarò il primo ad applaudire quando lo faranno, ma se non si iniziava oggi tutto sarebbe più difficile.

 

Il Fondo è stato concepito per quattro anni. Normalmente, nella programmazione di bilancio congiunturale, ci si attesta sul triennio. Il superamento di tale orizzonte implica che la volontà del legislatore prevede un assetto strutturale della norma. Poiché il fondo nasce per rimediare ai reati bancari è ragionevole sostenere che esaurito il compito di rimborsare i risparmiatori delle 6 banche, possa continuare il suo compito costituendo un presidio permanente. Certo, andrà rifinanziato, ma qui si misurerà la volontà politica.

 

Una volta costituito con la legge di bilancio il Fondo si è trattato di lavorare sul decreto applicativo. La prima questione da affrontare è stata se inserire “paletti” di accesso e vincoli di erogazione. In un precedente fondo di 60 milioni, stanziato da Veneto banca, il criterio adottato per stabilire a chi erogare era dettato dalle condizioni economico-sociali disagiate del risparmiatore o della sua famiglia. Nel fondo di solidarietà, come ho ricordato, vi erano i paletti patrimoniali e di reddito. Al termine di una lunga riflessione interna col Tesoro, si è approdati alla scelta di non mettere paletti e vincoli. Innanzitutto, per rispettare alla lettera la fonte primaria che non li prevede; in secondo luogo, per smorzare sul nascere ogni polemica sul rischio discriminatorio che ne poteva derivare dall’introduzione di criteri non supportati da un dettato legislativo; in terzo luogo, per lasciare al giudice o all’arbitro – che resta l’Anac – la massima discrezionalità possibile nel decidere. Il solo vincolo è cronologico. Ovvero, i rimborsi avvengono con l’ordine di presentazione della domanda. Criterio fastidioso, ma inevitabile essendo previsto un tetto di spesa: in assenza di un criterio qualsiasi di tipo selettivo, si verrebbe a costituire un diritto soggettivo a fronte del quale ogni tetto è sfondabile e un giudice darebbe ragione a ogni ricorrente.

 

Il lavoro di definizione del decreto attuativo non è ancora terminato e, anche in queste ore, stiamo limando delle osservazioni di merito che gli uffici legislativi della Presidenza del Consiglio ci hanno posto. Io confido che, pur nei pochi giorni che ci restano, si possa concludere e varare il decreto applicativo tanto atteso dai risparmiatori. Se non dovessimo fare in tempo, ma ripeto, mi auguro di farcela, consegneremo al prossimo esecutivo un prodotto finito, pronto per la firma. Sarebbe un buon capitolo di uno strano contratto…

 

Vi ringrazio dell’attenzione.

2018-05-18T15:51:27+02:00 18 Maggio 2018|In evidenza, News|

Un commento

  1. Pierluigi 19 Maggio 2018 al 9:47 - Rispondi

    Sintetico, chiaro, condivisibile, espressione di perita amministrazione, applicazione e buona politica Complimenti e grazie a Chi ha cercato questo utile e gradito contributo sociale.

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