Sintesi della relazione tenuta al Convegno della Fondazione Enzo Spaltro su “Economia psicologica” (Argelato, 21 giugno 2018)
L’equivoco che i comportamenti pubblici siano razionali è consolidato. Mentre nella sfera privata è accettata la dimensione psicologica dei singoli o del gruppo come movente dei comportamenti e delle azioni (la follia, la malvagità, la generosità, gli affetti, … ), quando si entra nel campo “pubblico” la dimensione psicologica non è presa in considerazione e poco indagata.
Uno dei motivi di questa rimozione è data dal concetto stesso di istituzione. L’istituzione ha, nella cultura diffusa un significato assoluto, impersonale, sacrale. Le persone che la rappresentano ne vengono, quindi, assorbite, inglobate, per l’appunto, “istituzionalizzate”, quindi, oggettivizzate. È sempre stato così per la monarchia, ma oggi vale anche per le leadership democratiche. Nel nostro ordinamento, ad esempio, il Presidente della Repubblica, nell’esercizio delle sue funzioni, non è responsabile dei suoi atti.
Dobbiamo, invece, assumere il punto di vista che c’è un rapporto strettissimo e complesso tra le decisioni (il governo degli eventi; la governance, ecc.) e le caratteristiche soggettive, psicologiche, culturali e i comportamenti conseguenti degli attori. Dagli impulsi alle passioni (l’odio, l’amore, la vendetta, ecc.), dalle debolezze (la viltà, l’invidia, l’accidia, ecc.) ai punti di forza (il coraggio, la strafottenza, ecc.), ci sono comportamenti individuali e collettivi che finiscono per influenzare tutti i campi della vita personale, familiare e comunitaria.
In un’epoca di successo dei serial televisivi, li utilizzo, a mo’ di esempio, per rendere più chiaro il concetto. La serie “Il trono di spade” è la massima rappresentazione di questo… pasticcio. Una buona parte delle decisioni, che vengono prese, sono dettate da motivazioni personali, da liti e invidie, da faide familiari e gli interessi di Stato dipendono dagli umori dei protagonisti. Togliete i draghi, la coeregrafia fantastica e un po’ di esagerazione spettacolare e avrete un quadro non lontanissimo dalla realtà. Peraltro, “Tudor”, “House of cards” e “Young Pope” raccontano la stessa storia, applicata a campi diversi del potere.
Ebbene, perchè non dovrebbe essere così anche in economia?
In effetti, il concetto di “panico” è ben conosciuto; le bolle finanziarie sono frequenti; la volatilità dei mercati è un esempio costante.
Per rendere ancora meglio il concetto, consiglio due letture estive. Le ho scelte perchè, come sapete, in questo 2018, cade il centenario di quel tragico evento che fu la Prima guerra mondiale: esempio di eroismo, di amor patrio, ma anche di irrazionalità e di follia. Il primo è “ I sonnambuli” di Clark e racconta i mesi precedenti l’avvio del conflitto, gli errori gravi, i comportamenti miopi, dettati da orgoglio e pregiudizio dei regnanti, dei capi di Stato e militari, dei diplomatici. Un conflitto che, con un po’ di razionalità, poteva essere evitato. Il secondo è “Le conseguenze economiche della pace” di Keynes, che racconta la conferenza di pace di Versailles e come le scelte compiute, a causa di errori, ripicche, preconcetti, abbiano provocato un’inutile umiliazione alla Germania che pose le basi per il Nazismo e il Secondo conflitto mondiale.
Mi è stato chiesto di fare riferimento alla mia esperienza personale. Ebbene, se devo dire qual è l’aspetto che più mi ha colpito, in questi 5 anni di governo è lo scarto tra la percezione, le attese della popolazione e i dati reali, i risultati ottenuti. Faccio degli esempi: la ripresa economica c’è? Sì o no? Tutti gli indicatori ci dicono di sì. Ma, se parlate con gli imprenditori, gli albergatori, i baristi e gli fate una domanda impersonale, generica, chiedendo se c’è la ripresa, vi diranno di sì (con diverse gradazioni). Se gli chiedete, guardandoli negli occhi e facendo riferimento alla loro condizione soggettiva “Come va? “, si lamenteranno. Vuol dire che stanno mentendo? No, essi testimoniano quello scarto che dicevo.
Vogliamo parlare del tema più caldo del momento: i migranti. Sono troppi? Siamo invasi? La frase più frequente è: “Non possiamo contenere tutta l’Africa”. Ma tutti i numeri ci dicono che non siamo affatto invasi.
Un ultimo esempio interessante riguarda i comportamento dei risparmiatori nelle crisi bancarie.
Come affrontare questo fenomeno? La risposta sta in tre mosse.
La prima è: riconoscere che il problema esiste e considerarlo come la normalità. Questo è il contributo di Thaler alla scienza economica. E, qui, si apre un primo problema: le persone sono un mix di bene e di male. La responsabilità dei decisori – in primis i politici, ma anche manager, giornalisti, attori sociali, intellettuali – è quella di tenere a freno gli istinti negativi e valorizzare quelli positivi. Bisogna sapere che se si “libera la bestia” (i social, straordinario strumento di partecipazione, finiscono per alimentarla), poi questa ti mangia. La responsabilità di decisori e stakeholder è crescente nella società moderna della comunicazione e della conoscenza.
La seconda è assumere dei criteri decisionali, espliciti. Il principale dei quali è il bene comune. Non a caso si parla di “i beni comuni” riferendoci all’acqua, all’energia. Non intendo affatto proporre una visione buonista, dove tutti sono bravi e solidali. Non sarei coerente con l’affermazione appena fatta che nelle persone c’è un mix di bene e di male, di buono e di cattivo. Intendo dire che il bene comune si raggiunge esercitando un difficile, sempre precario, equilibrio tra le diverse anime, tra individualismo e altruismo, tra egoismo e solidarietà. Tra benessere e ben-essere.
In quale modo? Indico due percorsi concreti e praticabili. Uno è educarci alla distinzione tra benessere e spreco. Il benessere è una buona cosa che va diffusa, ma spesso, nelle società ricche e industrializzate il benessere si trasforma in spreco. Il cibo, l’acqua, l’energia, i consumi generali. Pensate alle risorse che possono essere risparmiate e riutilizzate per accrescere la ricchezza collettiva. L’altro è lavorare sul concetto di maggioranza e minoranza in economia. Nella democrazia politica, il ragionamento è chiaro: chi ha più numeri comanda. In economia, bastano piccole percentuali di possesso di quote azionarie per controllare grandi capitali, multinazionali. Da un lato, andrebbe favorito il più possibile la diffusione delle cosiddette public company, ma, dall’altro, va corretto il sistema di governance.
La terza mossa consiste nell’adottare strumenti coerenti. A partire da una riflessione coraggiosa sulla democrazia ai tempi di internet. I meccanismi della democrazia liberale sono obsoleti e farraginosi. A questa osservazione c’è chi risponde con la democrazia diretta. Non sono d’accordo. Va bene allargare, in molti casi, la partecipazione diretta, ma il vero problema è come rigenerare la democrazia delegata e rappresentativa. Penso, ad esempio, ai tempi delle decisioni (quelle parlamentari) in rapporto alla velocità dei mercati. Un altro modo di affrontare il problema è innovare le logiche di bilancio e i criteri contabili. Dopo anni di lavoro, l’Italia è il primo Paese europeo ad aver adottato, nel 2016, gli indicatori di benessere, i Bes. Bisogna incentivare tale percorso. Ancora, è necessario sviluppare una legislazione di sostegno. Negli ultimi anni abbiamo messo a punto il fondo per le PMI vittime di mancati pagamenti, il fondo per le vittime di usura o per gli azionisti truffati. Le potenzialità sono rilevanti. Infine, adottare una dimensione locale della finanza. Micro, non nel senso di localistco, ma di attenzione alle potenzialità dei territori.
Sono solo piccoli e parziali esempi; la strada è lunga, ma piena di opportunità.
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