Il quotidiano “La Nuova Venezia” ha pubblicato una lettera dell’on. Pier Paolo Baretta.
Che non abbiamo vinto le elezioni è del tutto evidente; che abbiamo perso, e tanto, rispetto al 2008 anche. La ragione per cui non abbiamo “sfondato” non è per ciò che abbiamo detto, o non detto, ma perché siamo stati considerati corresponsabili dell’aggravarsi della crisi economica e delle mancate riforme istituzionali e di rinnovamento della politica.
Perciò, non siamo stati percepiti come l’alternativa e le nostre buone intenzioni non
sono apparse credibili. E il tasso di realismo politico, necessario in questa drammatica
emergenza economica, ha offuscato la domanda di speranza alla quale si sono attaccati i
cittadini, indipendentemente da chi la prospettava. In più, nonostante gli sforzi
fatti con le primarie per il premier, le poche deroghe concesse alla dirigenza, le due grandi
operazioni di rinnovamento della politica che il Pd ha fatto (75% di parlamentari scelti
con le primarie, di cui il 42% donne), è prevalsa la percezione che a governare il partito ci
fosse un apparato burocratico (non solo per ragioni anagrafiche). Inoltre, lo schema: alleati
con Vendola, ma interlocutori di Monti è stato rifiutato da chi non ci ha votato.
Tutto ciò ha certamente pesato, con il doppio effetto di una manifesta difficoltà ad allargare
il consenso oltre i confini storici e di una non tenuta a sinistra che registra una emorragia
verso 5 Stelle.Su tutto ciò dobbiamo seriamente interrogarci e cambiare. Ma gli oltre dieci milioni di voti, tanti sono gli elettori della coalizione (oltre 8 per il Pd) che ci fanno essere i primi, non hanno scelto per sbaglio; esistono e il fatto che, praticamente, non contino nel dibattito politico di questi giorni è francamente insostenibile. La maggioranza dei cittadini italiani ha scelto il centrosinistra. Una perversa legge elettorale ci dà un vantaggio sproporzionato alla Camera, ma ci toglie la maggioranza al Senato.
Non c’è dubbio che, politicamente, dobbiamo tenere conto del voto e del peso determinante del Movimento 5 Stelle; ma credo che dobbiamo rispondere anche a chi ci ha eletto e non solo a chi non lo ha fatto. Chi ci ha votato aveva chiaro, prima di tutto, che ci siamo posti in alternativa alla destra, per cui ipotizzare la grande coalizione con Berlusconi è insostenibile, pena tradire la fiducia che abbiamo avuto. L’argomento della ingovernabilità è fortissimo, come lo è l’esigenza inderogabile di dare un governo al Paese; ma se abbiamo rispetto del voto dobbiamo battere altre strade.
Il secondo motivo per cui la maggioranza dei votanti ci ha preferito ad altri, riguarda le riforme. Le due parole: “moralità e lavoro” sono state chiare in campagna elettorale. Ed è del tutto ridicolo oggi dire che non c’era un programma. Moralità per noi vuol dire: nuova legge elettorale con il doppio turno di collegio; riforma del Parlamento con il Senato federale e conseguente riduzione del numero dei parlamentari; allineamento della retribuzione dei parlamentari a quella dei sindaci delle grandi città; abolizione delle Province; conflitto di interessi e falso in bilancio. Lavoro vuol dire: riduzione delle tasse su lavoro e impresa, soprattutto se finalizzate a stabilizzare le assunzioni; detassazione degli utili reinvestiti, in particolare per innovazione e ricerca; pagamenti della pubblica amministrazione e revisione del patto di stabilità; Imu esente fino a 500 euro e per i beni strumentali; modifica della riforma Fornero sul mercato del lavoro (in particolare sulle assunzioni e il numero di figure contrattuali); il rifinanziamento degli ammortizzatori sociali e uscita flessibile per il pensionamento.
È un programma semplice e chiaro e non c’è bisogno di aspettare Grillo per votarlo.
Mettiamo tutto ciò nella richiesta di fiducia e immediatamente all’ordine del giorno della
Camera e votiamole. Al Senato decidano loro se gli vanno bene o meno, assumendosene la
responsabilità delle conseguenze. Restano tre punti aperti per un confronto parlamentare
che tenga conto del voto: L’euro e il “fiscal compact”; l’abolizione del finanziamento pubblico dei partiti; il reddito di cittadinanza. Sul primo penso che il compromesso (anche se il Movimento 5 Stelle inorridisce alla parola “compromesso”) consista nell’aprire una trattativa con Bruxelles per togliere gli investimenti dal Patto di stabilità e ridisegnare il piano di rientro, offrendo noi tempi accelerati per il raggiungimento della soglia del 100%, attraverso una massiccia dismissione del patrimonio pubblico e un drastico taglio alla spesa pubblica.
Sull’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti va aperta una discussione sui costi generali della politica e sui servizi che, in cambio, lo Stato deve assicurare al suo svolgimento e buon funzionamento. L’esempio dei collaboratori dei parlamentari non più rimborsati a prescindere e ad personam, ma gestiti direttamente dal Parlamento, è paradigmatico. Infine, il reddito di cittadinanza comporta un tale aggravio di spesa pubblica che non basterà la spending review, che pure va finalmente e coraggiosamente fatta. Bisognerà modificare e assorbire pezzi di welfare (dalla cassa integrazione straordinaria alla disoccupazione).
Basterà tutto ciò a dare un governo al Paese? Non è detto, perché gli obiettivi politici di molti prescindono dai contenuti e sono diventati eccessivamente ambiziosi. Ma certamente contribuirà alla chiarezza delle posizioni in campo e, soprattutto, delle volontà.Non è poco per un Paese sfinito e che, esploso nella più robusta delle proteste, ora chiede una guida.
Pier Paolo Baretta (Deputato Pd)
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