E adesso, tutti a cercare di rimediare. Il Veneto escluso dalla lista dei «competence center», le superstrutture per la ricerca e il trasferimento tecnologico, pilastri del futuro Piano Italia 4.0? Inaccettabile. Anzi, surreale. Le cifre del Pil, dell’export, del numero di imprese dovrebbero essere più che sufficienti: se si parla di nuovo manifatturiero e di quarta rivoluzione industriale è francamente difficile non passare da qui. Ecco allora che, per una volta, il fronte veneto si ricompatta: università, associazioni di categoria, Regione, e su, fino ai (pochi) uomini del Nordest che siedono nelle stanze dei bottoni. Tutti uniti, almeno oggi, nel fare pressione su Carlo Calenda, numero uno dello Sviluppo economico: signor ministro, ci ripensi, vogliamo assolutamente essere della partita.
Attenzione: la posta in gioco è altissima. Il Piano Italia 4.0 potrebbe attivare una decina di miliardi di investimenti, sette dei quali riservati alla ricerca applicata. In ballo non è solamente l’introduzione massiccia nelle imprese grandi e piccole delle tecnologie digitali. L’idea è più ambiziosa: fare un’iniezione di modernità, e quindi di competitività, all’insieme del sistema produttivo italiano. In questo scenario i competence center sono destinati a diventare gli indirizzi privilegiati per le aziende, i luoghi dell’eccellenza e della conoscenza, dove si intrecciano ricerca e hi-tech, formazione e strategia. Dei veri e propri «hub». Al di là del particolare che ai competence center verrebbe destinato, da subito, un centinaio di milioni.
Peccato che in una prima lista figurino Milano, Torino e Bari (sulla scia dei tre politecnici), Pisa con la Scuola superiore Sant’Anna e Bologna. L’allarme per l’esclusione del Veneto è dunque giustificato. Perché, come sostiene Stefano Micelli, professore di Economia e gestione delle imprese a Ca’ Foscari nonché direttore scientifico della Fondazione Nordest, «il problema non è di rivendicazione o di gelosia. Il punto è accelerare il processo verso il nuovo manifatturiero. Una metamorfosi che lungo la Serenissima è già realtà, ma che deve ancora compiersi fino in fondo». Insomma, un bel pasticcio. Meglio, un pasticcio alla veneta, dove non manca il solito rimpallo di responsabilità. «Su questa vicenda dei competence center» sostiene Roberto Marcato, assessore regionale allo Sviluppo economico, «le università non ci hanno mai coinvolto. Come se le istituzioni non dovessero avere alcun ruolo, nemmeno di moral suasion nei confronti del governo. Il risultato è che bisogna correre: ora ci siederemo tutti intorno a un tavolo e faremo qualsiasi cosa per fare valere le ragioni del nostro territorio. E non voglio nemmeno pensare che a Roma ci sia un pregiudizio politico nei nostri confronti». Pier Paolo Baretta, sottosegretario all’Economia, raccoglie la palla al balzo: «Non c’è alcuna ragione per escludere il Veneto dal progetto» sottolinea. «Tanto meno può esserci una preclusione. Dobbiamo fare i passi giusti. Io stesso conto di parlare con Calenda. Il problema va risolto usando ragione e buon senso». Appello immediatamente accolto da Alberto Baban, presidente nazionale dei piccoli di Confindustria: «Sono convinto che l’elenco dei competence center apparso nei giorni scorsi non sia definitivo. Il Veneto e il Nordest in generale hanno assolutamente le carte in regola per ottenere il riconoscimento che meritano».
Per cominciare a passare dalle parole ai fatti, Roberto Zuccato, presidente di Confindustria Veneto, ha lanciato come sede di un competence center l’università di Padova. Un invito raccolto in una lettera-appello al ministro Calenda dalle altre dieci associazioni (mondo dell’artigianato, del commercio, Legacoop e Cisl) aderenti al progetto Arsenale 2022: «Padova ha i titoli per essere un “politecnico” e appare in grado di realizzare una rete efficiente con le altre università del territorio». Rosario Rizzuto, rettore al Bo, oltre a ringraziare, ha immediatamente rilanciato, rimarcando il valore dell’ateneo patavino: «Basta ricordare il primato nella Vqr (Valutazione della qualità della ricerca) fatta dall’Anvur, o la prima posizione per quanto riguarda le università italiane nel prestigioso Nature ranking stilato dal periodico scientifico e basato sulle ricerche pubblicate». Se poi servisse a rafforzare la candidatura nordestina, si potrebbe pure mettere in campo una rete autentica, o se si preferisce un consorzio, tra università. In questo caso il cavallo su cui puntare potrebbe essere il Venice Innovation Hub, appena nato a Marghera sulle ceneri del Vega. Al momento vi partecipano gli atenei di Padova, Venezia e lo Iuav, ma la volontà è quella di allargarsi a Verona, Trento, Udine e Trieste, cioè di riunire tutti gli atenei nordestini.
Vedremo. L’importante sarebbe non disperdere l’unità d’intenti trovata in extremis. Benché i tempi stringano. Il Piano Italia 4.0 verrà presentato mercoledì 21 settembre, a Milano. Se, come c’è da augurarsi, Calenda, affiancato dalla collega dell’Istruzione, dell’università e della ricerca Stefania Giannini, non indicherà una lista chiusa di «vincitori» ma esporrà il ruolo strategico dei competence center e i criteri per la loro individuazione, magari rinviando a un prossimo bando di concorso, beh, sarebbe l’ideale. A quel punto non si potrebbe più sbagliare: bisognerebbe confluire su un’unica proposta e sostenerla, compatti, fino alla vittoria. Un modo per dimostrare che campanilismi, contrapposizioni, lotte di potere appartengono al passato. E che l’obiettivo, oggi, è davvero uno solo: lo sviluppo del territorio. Anche questa è innovazione.
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