Il vero dono non vuole la reciprocità

Il testo  riportato è uno stralcio della lezione magistrale che Enzo
Bianchi, il priore della comunità monastica di Bose, ha tenuto il 16
settembre a Carpi nella giornata conclusiva del Festival Filosofia
di Modena, Carpi e Sassuolo. Titolo del suo intervento
«”Dono” senza reciprocità».  

Esiste ancora il dono, oggi? In una società segnata da un accentuato
individualismo, con i tratti di narcisismo, egoismo, egolatria che la
caratterizzano, c’è ancora posto per l’arte del donare? Ecco una
domanda a mio avviso decisiva: nell’educazione, nella trasmissione
alle nuove generazioni della sapienza accumulata, c’è attenzione al
dono e all’azione del donare come atto autentico di umanizzazione?
C’è la coscienza che il dono è la possibilità di innescare i rapporti
reciproci tra umani, qualunque poi sia l’esito?
Da una lettura sommaria e superficiale si può concludere che oggi
non c’è più posto per il dono ma solo per il mercato, lo scambio
utilitaristico, addirittura possiamo dire che il dono è solo un modo per
simulare gratuità e disinteresse là dove regna invece la legge del
tornaconto. In un’epoca di abbondanza e di opulenza si può
addirittura praticare l’atto del dono per comprare  l’altro, per
neutralizzarlo e togliergli la sua piena libertà.
Si può perfino usare il dono – pensate agli «aiuti  umanitari» – per
nascondere il male operante in una realtà che è la  guerra. Questa
ambiguità che pesa sul donare e può pervertirne il  significato non è
nuova: già nell’antichità si diceva «Timeo Danaos et dona ferentes»,
«Temo i Greci anche quando portano doni»… Ma c’è  pure una forte
banalizzazione del dono che viene depotenziato e stravolto anche se lo
si chiama «carità»: oggi si «dona» con un sms una briciola a quelli che
i mass media ci indicano come soggetti – lontani! – per i quali vale la
pena provare emozioni…
Dei rischi e delle possibili perversioni del dono noi siamo avvertiti: il
dono può essere rifiutato con atteggiamenti di violenza o
nell’indifferenza distratta; il dono può essere ricevuto senza destare
gratitudine; il dono può essere sperperato: donare, infatti, è azione
che richiede di assumere un rischio. Ma il dono può anche essere
pervertito, può diventare uno strumento di pressione che incide sul
destinatario, può trasformarsi in strumento di controllo, può
incatenare la libertà dell’altro invece di suscitarla. I cristiani sanno
come nella storia perfino il dono di Dio, la grazia, abbia potuto e
possa essere presentato come una cattura dell’uomo, un’azione di un
Dio perverso, crudele, che incute paura e infonde sensi di colpa.
Situazione dunque disperata, la nostra oggi? No! Donare è un’arte che
è sempre stata difficile: l’essere umano ne è capace perché è capace di
rapporto con l’altro, ma resta vero che questo «donare se stessi» –
perché di questo si tratta, non solo di dare ciò che si ha, ciò che si
possiede, ma di dare ciò che si è – richiede una convinzione profonda
nei confronti dell’altro.
Donare significa per definizione consegnare un bene nelle mani di un
altro senza ricevere in cambio alcunché. Bastano queste poche parole
per distinguere il «donare» dal «dare», perché nel dare c’è la vendita, lo
scambio, il prestito. Nel donare c’è un soggetto, il donatore, che nella
libertà, non costretto, e per generosità, per amore, fa un dono
all’altro, indipendentemente dalla risposta di questo. Potrà darsi che il
destinatario risponda al donatore e si inneschi un rapporto reciproco,
ma può anche darsi che il dono non sia accolto o non susciti alcuna
reazione di gratitudine.
Donare appare dunque un movimento asimmetrico che nasce da
spontaneità e libertà. Perché? Possono essere molti i tentativi di
risposta, ma io credo che il donare sia possibile perché l’uomo ha
dentro di sé la capacità di compiere questa azione  senza calcoli: è
capax boni, è capax amoris, sa eccedere nel dare più di quanto sia
tenuto a dare. È questa la grandezza della dignità  della persona
umana: sa dare se stesso e lo sa fare nella libertà! È l’homo donator.
Certo, c’è un rischio da assumere nell’atto del donare, ma questo
rischio è assolutamente necessario per negare l’uomo autosufficiente,
l’uomo autarchico. E se il dono non riceve ritorno, in ogni caso il
donatore ha posto un gesto eversivo: attraverso il donare ha acceso
una relazione non generata dallo scambio, dal contratto,
dall’utilitarismo. Ha immesso una diastasi nelle relazioni, nei
rapporti, fino a porre la possibilità della domanda sul debito «buono»,
cioè il «debito dell’amore» che ciascuno ha verso l’altro nella
communitas. Sta scritto, infatti: «Non abbiate alcun debito verso gli
altri se non quello dell’amore reciproco» (Rm 13,8).
La prima possibilità del dono avviene attraverso la parola: parola
donata, data all’altro. Oggi siamo forse meno consapevoli di cosa
significhi «dare la parola, donare la parola», ma il dono della parola è
il sigillo sulla fiducia, sul credere negli altri. Senza fede negli altri non
c’è cammino di umanizzazione, ma l’eloquenza della fiducia è proprio
il donare la parola, che è promessa e accensione di responsabilità
verso l’altro. Nelle più quotidiane e autentiche «storie d’amore»,
proprio perché l’incontro diventi storia, perché l’attimo diventi tempo,
occorre la parola data, la promessa.
Ma dal dono della parola si deve tendere, attraverso una serie di atti
di dono, al dono della vita. Questo dono estremo è possibile là dove
un uomo o una donna hanno ragioni per cui vale la pena dare la vita,
spendere la vita, dedicare tutta una vita a… Sono le stesse ragioni per
cui vivono, per le quali la loro vita trova senso. Dare la propria vita è
però l’operazione più difficile, che urta contro le nostre fibre e il nostro
senso di autoconservazione. Noi siamo abitati dalla pulsione biologica
a vivere, a ogni costo, anche senza gli altri e magari contro gli altri…
Ma ecco la possibilità di dare noi stessi, la nostra vita per gli altri.
Non c’è via intermedia.
La tentazione dell’uomo è quella di dare, piuttosto che se stesso, altre
cose a lui estranee: è la logica dei sacrifici offerti a Dio… Ma quello
non è un dono, ed è significativo che nel cristianesimo la sola offerta
possibile sia quella di se stessi, del proprio corpo, della propria vita
per gli altri. Si tratta di non sacrificare né gli altri né qualcosa, ma di
dedicarsi, mettersi al servizio degli altri affermando la libertà, la
giustizia, la vita piena. Ma cosa significa donare  se stessi? Significa
dare la propria presenza e il proprio tempo, impegnandoli nel servizio
all’altro, chiunque sia, semplicemente perché è un uomo, una donna
come me, un fratello, una sorella in umanità. Dare  la propria
presenza: volto contro volto, occhio contro occhio, mano nella mano,
in una prossimità il cui linguaggio narra il dono all’altro.
Ma il dono all’altro – parola, gesto, dedizione, cura, presenza – è
possibile solo quando si decide la prossimità, il farsi vicino all’altro, il
coinvolgersi nella sua vita, il voler assumere una relazione con l’altro.
Allora, ciò che era quasi impossibile e comunque difficile, faticoso,
diviene quasi naturale perché c’è in noi, nelle nostre profondità la
capacità del bene: questa è risvegliata, se non generata, proprio dalla
prossimità, quando cessa l’astrazione, la distanza, e nasce la
relazione.
C’è una parola di Gesù – non riportata nei Vangeli, ma ricordata
dall’apostolo Paolo nel suo discorso a Mileto riferito negli Atti degli
apostoli – che è molto eloquente: «C’è più gioia nel donare che nel
ricevere». Esperienza reale di chi sa farsi prossimo avvicinandosi
all’altro perché l’altro, anche quando avesse il volto del lebbroso, se è
visto faccia a faccia, chiede alle nostre viscere di soffrire insieme,
chiede la compassione, chiede il dono della presenza e del tempo,
chiede il dono di noi stessi. L’atto del donare provoca gioia al donatore
perché è un atto concreto che lega il donatore al cosmo, all’altro: è un
atto percepito come speranza di comunione. L’accumulazione che non
conosce la logica del dono, invece, accresce sempre la dipendenza
dalle cose e separa l’uomo dall’uomo, l’uomo dagli altri. Non c’è vera
gioia senza gli altri, come è vero che non c’è speranza se non
sperando insieme. Ma la speranza è frutto del donare, della
condivisione, della solidarietà.
In questo donare e ricevere, proprio perché l’azione è oltre la giustizia
che si nutre delle regole dell’eguaglianza, si fa spazio l’amore che è
ispirato dalla sovrabbondanza, come dice Paul Ricoeur, appare cioè il
«buon debito dell’amore». L’azione del dare la parola, del donare le
cose espropriandole da se stessi, del dare la presenza e il tempo non
chiede restituzione, ma richiede che l’iniziativa del dono sia
proseguita, continuata. Il donare non può essere sottoposto alla
speranza della restituzione, di un obbligo che da esso nasce, ma
lancia una chiamata, desta una responsabilità, ispira il legame
sociale. Il debito dell’amore regge la logica donativa alla quale è
peculiare il carattere della gratuità, l’assenza della reciprocità. Com’è
vera la parola di Gesù sull’arte del dono: «Non sappia la tua sinistra
ciò che fa la tua destra» (Mt 6,3)! Ogni vita umana è istituita dal
debito dell’amore, grazie al quale l’altro è colui  del quale si è
responsabili, una persona che, una volta incontrata, ha diritto a
essere destinataria dell’amore in virtù della prossimità che si è creata.

2012-09-20T09:12:39+02:00 20 Settembre 2012|Opinioni|

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