Rapporto Bes, Baretta: “Il 2017 è stato l’anno della svolta, ora serve guardare a qualità della crescita”

È stato presentato oggi, presso l’aula magna in via Cesare Balbo 14, il Rapporto sul Benessere Equo e Sostenibile 2017 dell’Istat.

Giunto alla quinta edizione, il Rapporto Bes offre un quadro integrato dei principali fenomeni economici, sociali e ambientali che caratterizzano il nostro Paese, attraverso l’analisi di un ampio set di indicatori suddivisi in 12 domini.

Secondo le analisi Istat sugli indicatori di benessere equo e sostenibile, in Italia, l‘uscita dalla crisi non ha interessato tutte le fasce della popolazione e tutto il territorio nazionale: nonostante la crescita del reddito disponibile aumentano infatti le disuguaglianze, mentre gli italiani si dichiarano meno soddisfatti dei propri rapporti sociali e mostrano una minore partecipazione civica e politica. Partono da qui, dalla distanza tra dati oggettivi e percezioni individuali, le conclusioni del sottosegretario all’economia, Pier Paolo Baretta.

 

Caro Presidente, cari relatori, gentili partecipanti,

È davvero con piacere che partecipo alla presentazione della V edizione del vostro rapporto sul benessere equo e sostenibile e che vi porto il saluto, caloroso e amichevole, del ministro Piercarlo Padoan.

Il 2017 è stato, per l’Italia, l’anno della svolta. La ripresa economica, certificata da voi e dai più autorevoli osservatori internazionali, tra cui l’Ocse ed il Fondo monetario, segue ad una sostanziale inversione di tendenza, che già avevamo avvertito dai timidi segnali registrati nel 2016.

Non mancano le difficoltà e le preoccupazioni; né sfugge, a noi, la strada che dobbiamo ancora percorrere per considerare stabile la ripresa. Da qui la prudenza del Presidente del Consiglio che, nel riconoscere i risultati raggiunti, ci esorta a non demordere, a perseverare nella strategia delle riforme; da qui la “strada stretta” alla quale ci richiama il Ministro Padoan.

Ma, i numeri certificano che il nostro Paese ha imboccato la via della crescita, segnata da interessanti segnali di irrobustimento strutturale. Cresce il Pil, come l’Istat ha di recente certificato; crescono la produzione industriale, il tasso di occupazione, il reddito medio disponibile. Migliorano, sia pure in misura non soddisfacente, anche gli indicatori legati all’istruzione, alla sicurezza, alle politiche pubbliche.

Tutto bene, dunque? No, non solo per i problemi strutturali che ancora ci attanagliano, quali la semplificazione amministrativa e fiscale; la lentezza della giustizia civile; l’incertezza dei finanziamenti di credito alle imprese e alle famiglie; l’indeterminatezza del quadro politico; ma, anche, se non soprattutto, il prevalere di un clima sociale affaticato da dieci anni –  tanti! – di lunga e faticosa crisi che ha allentato i legami, modificato i comportamenti individuali, cambiato antropologicamente la struttura sociale e quella produttiva. Sicché, le persone appaiono timorose sulle loro  prospettive.

Tutto ciò produce un’insoddisfazione generale, in molti casi giustificata, in altri no, che sfocia in un fastidio diffuso verso le Istituzioni, in un malessere ed in un’insoddisfazione, che, in assenza di un collante positivo, dà vita a quella ”Italia dei rancori”, di cui ha parlato il Censis, pochi giorni fa, nel suo Rapporto sulla situazione sociale del Paese. E che Valeri ha ricordato bene poco fa, al quale fa specchio il rapporto Bes laddove rileva lo sfaldarsi delle relazioni sociali.

È una dinamica che si ritrova con caratteristiche simili in altre democrazie occidentali a economia avanzata e che influenza le stesse scelte elettorali, come il caso americano dimostra. Con la crisi, infatti, che da economica è divenuta sociale, è andata, anche, in crisi la fiducia dei cittadini nella capacità dei rispettivi governi di migliorare le effettive condizioni di vita, dalla salute alla sicurezza, dall’ambiente all’equità.

La contraddizione, almeno in Italia,  ci appare evidente: la crescita economica e il miglioramento delle condizioni di vita sono un fatto reale, ma, non omogeneo, con una diffusione a macchia di leopardo, che non ha risolto gli squilibri territoriali e sociali. Sicché, possiamo dire, che la ripresa, che c’è, non è, però, percepita nella sua portata e per le sue opportunità.

È necessario, dunque, chiederci cosa possiamo fare per migliorare non solo… i numeri, ma anche… la fiducia. Ebbene, dobbiamo operare, innanzitutto, un salto di qualità del nostro modo di guardare alla realtà che ci circonda.  Dobbiamo lasciarci interrogare, con mente aperta e critica, dagli indicatori macroeconomici, dalle tendenze demografiche, dai flussi e dalla mobilità sociale, dalle dinamiche culturali e di costume. Dobbiamo interpretare  il dato  quantitativo, oltre la sola ricerca del consenso, ma per dar vita ad un progetto che risponda alle grandi domande del presente. Perciò, i dati, di cui disponiamo, vanno interpretati e, attraverso di essi, vanno riconosciuti i “segni dei tempi”.

La politica, soprattutto, ha questa responsabilità, opportunamente lo ha ricordato Donatella Bianchi. Dobbiamo, allora,  fuggire dalla tentazione di usare i numeri per confermarci nelle nostre convinzioni, Mark Twain ironizzava sul rischio di utilizzare le statistiche “come gli ubriachi utilizzano i lampioni: più per darsi un sostegno, che per vederci chiaro”.

Mentre, al contrario, come dice il rapporto la statistica è necessaria per fare sintesi.

Dobbiamo, dunque, portare la nostra attenzione sulla qualità della crescita, individuando parametri innovativi che siano in grado di cogliere aspetti rilevanti della vita quotidiana delle persone, che permettano a stakeholder e decisori politici di distinguere tra benessere e spreco, tra qualità della vita e sopravvivenza.

Il Pil, è ancora necessario, forse perfino decisivo nel determinare le condizioni di base della vita dei cittadini, ma certo, ormai abbiamo consolidato questa opinione, non esaurisce il concetto di benessere. Non può, infatti, rendere conto di tutte le dimensioni e inoltre non fornisce elementi su due fattori rilevanti: l’equità, ovvero come il benessere sia diffuso tra le persone e non concentrato; e la sostenibilità, cioè la possibilità per il sistema economico, ambientale e sociale di mantenere un certo livello di benessere.

Solo attraverso una visione comparata e collettiva i Governi e tutti coloro che hanno responsabilità decisionali, avranno gli strumenti per adottare politiche finalizzate a rispondere alle aspettative e ai bisogni dei cittadini, interrompendo quel circolo vizioso che alimenta il populismo e l’individualismo, che ha scomposto gli equilibri e ridotto la qualità delle relazioni sociali.

Non è superfluo, quindi, ricordare, anzi è necessario rivendicare, come il nostro Paese sia tra i primi a monitorare in maniera sistematica l’evoluzione del benessere nelle statistiche ufficiali, grazie all’apporto in termini di riflessione e analisi, dato dal rapporto annuale Bes dell’Istat.

La nostra sensibilità e attenzione su questi temi è testimoniata dalla riforma della legge di bilancio approvata nel 2016 che, tra le altre innovazioni, ha introdotto gli indicatori di benessere equo e sostenibile nel ciclo di finanza pubblica. Nello stesso filone culturale si inserisce l’istituzione, lo scorso anno, della Commissione nazionale per la diffusione dell’educazione finanziaria. Innovazioni che hanno incontrato un largo consenso parlamentare.

Inserendo gli indicatori di benessere nelle previsioni a politiche invariate e programmatiche, il nostro Paese – primo nell’Unione Europea e nel G7 – si pone all’avanguardia nella trattazione di obiettivi di politica economica e sociale che vanno “oltre il Pil”.

È una sensibilità politica e istituzionale che apre la strada a una visione innovativa del rapporto tra le politiche pubbliche e la qualità della vita dei cittadini.

Gli indicatori di benessere equo e sostenibile ci permettono di realizzare una vera e propria valutazione dell’impatto delle decisioni pubbliche su ambiti e condizioni specifiche della vita dei cittadini e diventano, così, un metro di misura delle scelte politiche.

Come previsto dalla riforma, la selezione degli indicatori da inserire nel ciclo di bilancio è stata operata da un apposito Comitato composto dai vertici di Mef, Istat, Banca d’Italia e da due riconosciuti esperti della materia, il prof. Giovannini e il prof. Guiso.

Per i lavori futuri, per gli anni a venire, per i cicli di bilancio che si susseguiranno, Istat e Mef continueranno a lavorare fianco a fianco con le rispettive competenze di costruzione della base dati e di previsione dell’impatto delle politiche.

Onde facilitare l’accountability di questo esercizio andrà sviluppata una specifica modellistica che impegnerà a fondo le strutture tecniche del Mef in collaborazione con gli altri Ministeri. Non sarà un compito facile e di breve durata. Un work in progress, un lavoro di affinamento continuo, che deve essere aperto anche al contributo delle parti sociali e degli stakeholder, i cosiddetti portatori di interesse, alimentando e dando corpo a quel dialogo sociale capace di ricucire la distanza tra istituzioni e società civile.

È importante, in quest’ottica, ricordare che nella selezione degli indicatori il Comitato ha potuto lavorare senza partire da zero, ma iniziando invece da una base straordinaria. Il fatto che la nascita del complesso di indicatori che sono ogni anno presentati e discussi nel rapporto Istat Bes sia stato selezionato attraverso un ampio processo di consultazione pubblica, che ha coinvolto rappresentanze sociali oltre ad esperti e rappresentanti del mondo accademico, che abbia largamente tenuto conto del dibattito scientifico e delle esperienze internazionali, che sia fondato su una base statistica popolata con dati di elevata qualità, ha fatto sì che nella scelta degli indicatori da inserire nel processo di bilancio si potesse partire da una base solida e di qualità.

I Governi italiani da ora in poi sono tenuti a valutare in maniera sistematica – ex ante e ex post – l’impatto delle politiche su diseguaglianza, salute, istruzione, condizione delle donne nel mercato del lavoro, ambiente, sicurezza dei cittadini, etc.

Accanto al ruolo del Pil, che resta centrale nella definizione e monitoraggio degli obiettivi di politica economica e di finanza pubblica, l’attenzione si focalizza ora in modo ufficiale anche su altri aspetti rilevanti della vita dei cittadini dei quali i governi sono obbligati a tenere conto nella predisposizione, oltre che nella valutazione delle politiche pubbliche.

Si tratta di un passo importante, come ha riconosciuto lo stesso Ufficio parlamentare di bilancio, definendo gli indicatori di benessere come una cerniera tra analisi macroeconomiche e analisi micro e settoriali, tra politiche economiche e riforme strutturali. Nelle quali i “sussurri” di Bonomi diventano voe e domanda!

Dal 15 novembre con la pubblicazione in Gazzetta ufficiale del decreto del Ministro dell’Economia, già vagliato dalle competenti Commissioni parlamentari, 12 indicatori entrano ufficialmente a far parte del ciclo di finanza pubblica:

  • Reddito medio disponibile aggiustato pro capite;
  • Indice di diseguaglianza del reddito disponibile;
  • Indice di povertà assoluta;
  • Speranza di vita in buona salute alla nascita;
  • Eccesso di peso;
  • Uscita precoce dal sistema di istruzione e formazione;
  • Tasso di mancata partecipazione al lavoro, con relativa scomposizione per genere;
  • Rapporto tra tasso di occupazione delle donne di 25-49 anni con figli in età prescolare e delle donne senza figli;
  • Indice di criminalità predatoria;
  • Indice di efficienza della giustizia civile;
  • Emissioni di CO2 e altri gas clima alteranti;
  • Indice di abusivismo edilizio.

In via sperimentale e a testimonianza dell’interesse del Governo, il Def approvato pochi mesi fa ha già inserito quattro indicatori di benessere (Reddito medio disponibile aggiustato pro capite; Indice di diseguaglianza del reddito disponibile; Tasso di mancata partecipazione al lavoro; Emissioni di CO2 e altri gas clima alteranti) che saranno poi oggetto di valutazione nel febbraio 2018 alla luce della legge di bilancio in corso di approvazione in Parlamento. Come potete vedere tra i quattro vi è l’indice di diseguaglianza a conferma dell’impegno del Governo sul tema della crescita inclusiva. Ma accolgo volentieri la raccomandazione del prof. Diamanti di di favorire l’unificazione dei parametri in un unico indicatore, il Bes inteso come dato aggregato.

Ma, questa importante innovazione non è solo una sperimentazione indipendentemente dal contesto. L’Italia ha, per la prima volta nella sua storia, una legge sulla povertà; in Europa abbiamo, come governo, proposto l’istituzione di un Fondo europeo per la tutela della disoccupazione; nell’ambito del G7 la presidenza italiana ha posto al centro del dibattito il tema della crescita inclusiva. Tutto ciò insieme alle leggi che hanno allargato i diritti civili, che hanno messo al centro dell’economia il privato sociale e il Terzo settore, che hanno pensato al “Dopo di noi.

È in questo contesto che, anche gli indicatori di benessere, sono una bella eredità di questa legislatura che ormai si conclude e che ci permettono di dire, senza presunzione, che, anche per questo, consegniamo agli italiani un Paese migliore di come era cinque anni fa.

Vi ringrazio dell’attenzione e vi auguro buon lavoro.

2017-12-15T16:24:28+01:00 15 Dicembre 2017|In evidenza, News|

Scrivi un commento

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.